◆ Sono cresciuto in un mondo che ancora risuonava della potenza della parola che aveva significato i grandi diritti civili del dopoguerra e la scelta della forma repubblicana: referendum. È uno dei pochi strumenti di democrazia diretta, in un tempo in cui ognuno si sente centro del mondo nel circo virtuale dell’attualità, ma in cui al tempo stesso gli strumenti per incidere direttamente sulla realtà si assottigliano. In questi giorni il ddl sicurezza, un provvedimento che contiene norme limitanti e pericolose per tutti nel campo che dovrebbe essere sacro dell’espressione del dissenso, sta andando avanti a colpi di fiducia e con forzature che aggirano il confronto parlamentare. Le manifestazioni sono represse a colpi di sfollagente. In questa agonia della rappresentanza come piccoli iceberg affiorano debolmente i quesiti referendari sul lavoro e il diritto di cittadinanza dell’8 e 9 giugno. La legge prevede per la validità del referendum il raggiungimento del quorum. Di conseguenza diventa strumento politico la più bassa propaganda: andate al mare. Il silenziamento mediatico e la scelta delle date da parte del governo fanno il resto. Ma se le elezioni non vengono invalidate dalla bassa affluenza alle urne, perché il referendum sì? Dovremmo batterci per modificare l’istituto del referendum, facendo valere il numero di firme raccolte come quorum. Magari proprio con un referendum.
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati