Venerdì 5 febbraio, in una località segreta alla periferia di Ginevra, si è giocato con una votazione il futuro politico della Libia, sotto gli sguardi nervosi degli osservatori internazionali. La posta era alta: dare al paese un governo di unità nazionale dopo più di sei anni di conflitto tra le autorità rivali di Tobruk e di Tripoli.
Negli ultimi mesi c’erano stati segnali incoraggianti. A giugno del 2020 si erano fermati i combattimenti intorno a Sirte e alla mezzaluna petrolifera (i pozzi e gli impianti petroliferi sulla costa). Le forze fedeli al governo di Tripoli, guidato da Fayez al Sarraj, erano riuscite, grazie al sostegno della Turchia, a contenere l’offensiva lanciata dal maresciallo Khalifa Haftar, l’uomo forte dell’est della Libia, nell’aprile del 2019. Il 21 agosto era stato firmato un primo accordo che ha bloccato i combattimenti. Poi era arrivato il cessate il fuoco del 23 ottobre a Ginevra, sostenuto dalle Nazioni Unite.
Nonostante alcune frasi che lasciano spazio a interpretazioni divergenti, il testo chiede l’allontanamento dei combattenti stranieri ed è considerato un passo avanti significativo verso la stabilizzazione. Secondo Jalel Harchaoui, esperto di Libia, la “calma tecnica” ha contribuito al processo di riconciliazione, avviato a Tunisi dall’Onu a novembre e culminato nel Forum del dialogo politico libico (Fdpl) di Ginevra. Nella città svizzera si sono riuniti dal 1 al 5 febbraio i 75 delegati delle tre regioni libiche (est, ovest, sud) incaricati di eleggere un nuovo consiglio presidenziale, rappresentativo di tutte le parti, composto da un presidente, due vicepresidenti e un primo ministro. Il compito di questo consiglio è organizzare nuove elezioni entro dicembre.
La prospettiva è plausibile, tanto più che le due maggiori potenze coinvolte sul campo di battaglia sembrano per la prima volta intenzionate a deporre le armi. La Russia, che supporta le forze dell’est con i mercenari del gruppo Wagner, si è ritirata dalla Tripolitania. “Alcuni libici hanno cercato il sostegno di Mosca promettendo in cambio contratti economici favorevoli”, commenta Tim Eaton, esperto di economia politica libica del centro studi Chatham House. Anche la Turchia vuole proteggere le sue conquiste, in particolare le riserve di idrocarburi.
Per “far valere gli accordi economici”, spiega Harchaoui, Mosca e Ankara devono assicurare una “parvenza d’intesa tra le parti” e una “calma utile alla spartizione della torta”.
Un esito inaspettato
“La prima tappa è la riunificazione del sistema di governo libico”, precisa Eaton. Ma alle votazioni del 5 febbraio ha vinto una lista che nessuno si aspettava e questo sembra gettare un’ombra sulle reali speranze di riunificazione. Ufficialmente tutti si sono rallegrati del buon esito del processo elettorale, ma la scelta di Abdul Hamid Dbeibah come primo ministro e quella di Mohamed Younis al Menfi come presidente pongono diversi problemi. L’affermazione dell’ingegnere e miliardario Dbeibah segna il ritorno sulla scena di un veterano del regime di Muammar Gheddafi. Inoltre il processo di Ginevra si fondava sulla rappresentanza di tutte le forze in campo: Al Menfi è originario dell’est ma è politicamente vicino all’ovest, e così il Forum ha riconosciuto alle forze dell’est un posto solo nominale e di scarsa importanza. Le autorità di Tobruk hanno già annunciato che non cederanno il potere se il loro parlamento non approverà il governo transitorio.
“L’Onu si è fatta fregare”, conclude Harchaoui. Se il governo di unità dovesse effettivamente vedere la luce, potrebbe aggravare le frustrazioni e quindi rinfocolare quelle tensioni che sembravano essersi placate negli ultimi mesi. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati