Il 28 febbraio almeno 18 persone sono state uccise e trenta sono rimaste ferite dopo che le forze armate birmane hanno aperto il fuoco sui manifestanti che protestavano in varie città contro il regime militare. È stata la giornata più sanguinosa dall’inizio della rivolta contro il colpo di stato del primo febbraio. Un mese dopo la presa del potere dell’esercito, la resistenza popolare non accenna a diminuire. Lo scorso fine settimana centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere il ripristino del governo eletto di Aung San Suu Kyi e del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), oltre a riforme democratiche più ambiziose.

Dopo una settimana di crescenti tensioni, il 27 febbraio le forze armate sono passate a metodi più duri per disperdere manifestazioni, a cui partecipa ogni giorno un numero crescente di persone. Centinaia di dimostranti sono stati arrestati. Secondo l’ong Assistance association for political prisoners (Aapp), il 27 febbraio erano 854 le persone fermate, incriminate o condannate in relazione al colpo di stato. Gli arresti hanno spianato la strada all’uso della violenza il 28 febbraio. Secondo il portale Myanmar Now, migliaia di persone si sono riunite al mattino allo svincolo Hledan di Rangoon, diventato un importante centro di raduno quotidiano nelle tre settimane di protesta. Nel giro di pochi minuti la polizia ha attaccato la folla con granate stordenti, poi si è messa a sparare. Almeno due manifestanti sono stati uccisi sul posto, e secondo alcuni resoconti la polizia ha usato idranti, gas lacrimogeni e munizioni vere contro i manifestanti in altre città.

Nel frattempo il numero degli arresti cresceva. Secondo l’Aapp, il 28 febbraio le persone arrestate, incriminate o condannate erano in totale 1.132. Tra queste c’erano almeno sei giornalisti. Shin Moe Myint, un fotogiornalista freelance di 23 anni, è stato picchiato dai poliziotti prima di essere portato via. Anche Thein Zaw, che lavora come fotografo per l’Associated Press, è stato arrestato ed è ancora in stato di fermo.

Nonostante la repressione, la resistenza della popolazione impedisce alla giunta guidata dal generale Min Aung Hlaing di riprendere anche solo una parvenza di attività governativa normale. A Monywa e a Mandalay i cittadini hanno costituito delle “entità governative popolari” che hanno giurato fedeltà al Comitato di rappresentanza del parlamento birmano (Crph), un governo-ombra formato da deputati e senatori eletti nel novembre del 2020, per lo più dell’Nld.

Le violenze del fine settimana si sono verificate mentre l’ambasciatore birmano alle Nazioni Unite, Kyaw Moe Tun, teneva un emozionante discorso all’assemblea generale dell’Onu. Kyaw Moe Tun ha pubblicamente rotto con la giunta, dichiarando fedeltà al Crph, sollevando tre dita in segno di solidarietà con i manifestanti che si oppongono al colpo di stato e dicendo: “Oltre al sostegno che già abbiamo, servono altre azioni della comunità internazionale, le più forti possibili, per mettere immediatamente fine al colpo di stato militare, dire basta all’oppressione di persone innocenti, restituire il potere dello stato al popolo e ripristinare la democrazia”.

L’uso di armi da fuoco da parte dei militari il 28 febbraio è stato accompagnato da una serie di dichiarazioni di condanna dei governi occidentali e di varie agenzie delle Nazioni Unite. Ma, appena un mese dopo l’inizio di quella che sarà forse una lunga crisi politica, sembrano dichiarazioni di circostanza, e continua a non essere chiaro quel che la comunità internazionale potrà fare per influenzare la situazione in Birmania. Il 2 marzo l’Associazione dei paesi del sudest asiatico (Asean) ha invitato la giunta birmana a rilasciare Aung San Suu Kyi e a cessare l’uso della violenza contro i manifestanti.

L’analisi
Il dilemma delle minoranze

“In risposta al colpo di stato del 1 febbraio, con la destituzione del governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e l’arresto dei suoi leader, è nato un movimento di disobbedienza civile che ha portato per le strade centinaia di migliaia di persone ogni giorno”, scrive Philip Annawitt sull’Asia Nikkei. “Il movimento guidato dalla generazione Z coinvolge persone di etnia ed estrazione sociale diverse. Le proteste hanno colpito l’amministrazione statale e le banche e mandato all’aria i trasporti pubblici”. Ma, avverte Annawitt, la disobbedienza civile non potrà continuare ancora a lungo. Alcuni dei parlamentari eletti a novembre 2020, quando l’Nld ha vinto con una valanga di voti, che proprio il 1 febbraio avrebbero dovuto prendere servizio, hanno formato un governo ombra e, scrive Annawitt, dovranno coinvolgere le minoranze etniche. “Le minoranze sono il fattore che deciderà le sorti di questo colpo di stato. La maggioranza bamar domina sia l’esercito di uno dei paesi più diversificati al mondo, con 130 minoranze ufficiali, sia l’Nld. I bamar vivono principalmente nelle regioni centrali, lungo il fiume Irrawaddy, mentre le minoranze abitano negli stati etnici ai confini del paese. In questi stati sono attivi partiti politici che rappresentano le minoranze, con organizzazioni armate che stanno combattendo contro il Tatmadaw, l’esercito birmano, per rendere i loro stati più autonomi. Molti controllano zone del territorio che il governo centrale non riesce nemmeno a raggiungere”. Nei cinque anni al governo, l’Nld e Aung San Suu Kyi non hanno mantenuto la promessa di concedere più autonomia agli stati etnici. La loro frustrazione è descritta così da Kyaw Hsan Hlaing, giornalista del Rakhine (lo stato dove vivono le minoranze arakan e rohingya): “Pur condannando il colpo di stato militare, non sostengo l’Nld o un ritorno al governo di prima”, scrive su Frontier Myanmar. “Durante il mandato dell’Nld, le persone non bamar come me hanno continuato a essere escluse dal punto di vista politico e socioeconomico, e a subire abusi dai militari. Negli ultimi due anni i combattimenti tra il Tatmadaw e il gruppo ribelle Arakan army (Aa) nel Rakhine sono stati particolarmente aspri e le guerre negli stati delle minoranze continuano da settant’anni. Nel 2015 molti hanno creduto alla promessa di Aung San Suu Kyi, che però, invece di rispettare le nostre diversità, ha elevato statue del generale Aung San (padre di Suu Kyi e fondatore del Tatmadaw) in zone non bamar, ha messo membri del suo partito in posizioni di rilievo negli stati e nelle regioni delle minoranze, e ha stretto accordi con la Cina per megaprogetti sui nostri territori. Nel Rakhine il governo dell’Nld ha ancora discriminato la minoranza arakan: ha chiesto al Tatmadaw di ‘distruggere’ l’Aa, ha imposto il più lungo blocco di internet al mondo, dichiarato l’Aa un’organizzazione terroristica, escludendolo dalla conferenza di pace con gli altri gruppi armati, e bloccato gli aiuti umanitari destinati a chi viveva nelle zone dei combattimenti”. ◆


È ormai evidente che un ritorno al complicato accordo di condivisione del potere tra il governo dell’Nld e i militari non è più possibile, anche se il generale Min Aung Hlaing e l’alto comando militare fossero disposti ad accettarlo. Nelle ultime tre settimane il movimento di protesta è diventato più radicale nelle sue richieste, compresa quella di espellere una volta per tutte gli odiati militari dalla vita politica del paese.

Incapace di rovesciare il corso degli eventi, ostile al compromesso e con la popolazione che le impedisce di governare normalmente, è sempre più probabile che la giunta userà la forza per rimanere al potere. Senza preoccuparsi di cosa dirà il resto del mondo. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati