La decisione del presidente statunitense Joe Biden di ritirare tutte le truppe americane dall’Afghanistan entro l’11 settembre, che si raggiunga o meno un accordo di pace nel paese devastato dalla guerra, apre la strada a una facile vittoria dei taliban su Kabul e all’estromissione del governo in carica guidato dal presidente Ashraf Ghani.

In effetti non c’era aria di compromesso quando il gruppo ribelle islamico ha annunciato che non avrebbe partecipato alla conferenza di pace promossa dagli Stati Uniti e patrocinata dalla Turchia con il sostegno dell’Onu. In programma il 24 aprile, l’incontro doveva riavviare i colloqui di Doha, in Qatar, da tempo arenati. I taliban hanno posto varie condizioni solo per valutare se aderire alla conferenza, e il ritiro incondizionato delle truppe straniere era in cima alla lista. Il 21 aprile la conferenza è stata rinviata a dopo la fine del ramadan, nella speranza che nel frattempo i taliban accettino di partecipare.

Un’altra stagione di guerra porterebbe nuove ondate di profughi in Pakistan

Cresce il timore che il gruppo ribelle, una volta partite le truppe straniere, cercherà di ripristinare la sharia, la rigida legge islamica imposta dal 1996 al 2001, quando il suo governo fu deposto dall’invasione statunitense dopo gli attentati dell’11 settembre di quell’anno. I taliban assicurano che non ci sarà un ritorno al passato e, in particolare, che non si opporranno ai diritti e all’istruzione delle donne, diffusi in alcune zone del paese dopo la loro cacciata.

Dai racconti provenienti dalle aree oggi sotto il loro controllo, emerge una storia molto diversa. Secondo Human rights watch, nelle aree governate dai taliban l’accesso femminile all’istruzione è disomogeneo: alcuni funzionari permettono alle ragazze di andare a scuola anche dopo la pubertà, altri invece lo vietano. La polizia religiosa continua a pattugliare le strade. I comandanti taliban hanno minacciato e aggredito i giornalisti. In alcuni distretti è proibito guardare la tv. I cellulari sono vietati o consentiti con grandi restrizioni, perciò per le persone è difficile comunicare, lavorare o studiare.

Il ritiro statunitense entro l’11 settembre andrà incontro a una delle condizioni poste dai taliban per proseguire il dialogo e permetterà al gruppo d’intensificare gli sforzi per una vittoria militare definitiva. Le rassicurazioni di Washington sul sostegno diplomatico al presidente Ghani suoneranno sempre più vuote. Anche se sono state ribadite il 15 aprile, quando il segretario di stato statunitense Anthony Blinken è arrivato a sorpresa a Kabul. Blinken ha promesso che gli Stati Uniti manterranno i rapporti con l’Afghanistan anche dopo il ritiro di tutte le truppe.

Tuttavia, le difficoltà nei colloqui di pace tra i ribelli e il governo afgano minacciano di lasciare un vuoto di potere che potrebbe far precipitare ancora di più il paese nella violenza. Dichiarazioni, commenti e resoconti pubblicati sul sito dei taliban mostrano come agli occhi del gruppo l’amministrazione di Kabul sia ancora fatta di “schiavi e protettori” d’interessi stranieri, incapaci di difendere i valori religiosi o politici del popolo afgano. Inoltre i ribelli continuano a disprezzare la “democrazia occidentale” e puntano a istituire in Afghanistan un “emirato islamico” dopo la guerra.

È evidente, alla luce degli obiettivi dei taliban per il futuro dell’Afghanistan, che i negoziati con dei “burattini dell’occidente” perdono di qualsiasi significato. E, secondo analisti e osservatori, è improbabile che con questi obiettivi i taliban decidano di non usare più la violenza. Anzi, guardando alle ultime tendenze, già oggi l’Afghanistan conta un numero di vittime civili superiore a quello del 2020, quando Stati Uniti e ribelli hanno firmato l’accordo con cui Washington s’impegnava a ritirare tutte le truppe entro il 1 maggio di quest’anno. Oggi gli Stati Uniti hanno più di tremila militari nel paese.

Secondo l’ultimo rapporto della Missione di assistenza dell’Onu in Afghanistan (Unama), nei primi tre mesi del 2021 ci sono state “1.783 vittime tra i civili (573 morti e 1.210 feriti), un incremento del 29 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020. A preoccupare in particolare è il numero di donne uccise o ferite (37 per cento in più) e quello dei bambini (23 per cento in più)”. Il rapporto spiega inoltre che “elementi antigovernativi continuano a essere responsabili della maggioranza (61 per cento) delle vittime civili, mentre le forze filo-governative di circa un quarto”.

La guerra si sta già intensificando, a dimostrazione del fatto che mesi di colloqui tra Kabul e i taliban, tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, non hanno portato cambiamenti significativi sul campo, anche se i ribelli hanno ridotto gli attacchi contro le truppe e le strutture statunitensi (pur continuando a mantenere alta la pressione sulle forze nazionali di Ghani). Data la situazione, se non ci sarà un accordo politico è molto probabile che in Afghanistan si torni a una guerra civile su vasta scala dopo il ritiro delle truppe statunitensi. Rahmatullah Nabil, ex capo dei servizi d’intelligence afgani, ha di recente dichiarato al New York Times che Kabul è debole: “Diventiamo sempre più deboli. La sicurezza è debole, tutto sta diventando più debole e i taliban se ne approfittano”, ha dichiarato.

Già in passato gli Stati Uniti hanno lasciato conflitti inconclusi, con risultati poco felici. L’accordo siglato nel 1973 per ritirare le truppe dal Vietnam del Sud sfociò in altri due anni di guerra e nella vittoria finale delle forze comuniste. Le rappresaglie contro i sudvietnamiti, alleati degli Stati Uniti, provocarono l’esodo di massa dei cosiddetti boat people e una delle peggiori crisi umanitarie del novecento. Un massacro simile si è visto dopo il breve intervento statunitense in Iraq, nel 1991, quando il dittatore Saddam Hussein lanciò un sanguinoso attacco contro gli sciiti contrari al regime nel sud del paese. Dopo il secondo intervento statunitense nel 2003 e la cacciata di Saddam, molti leader tribali delusi si sono uniti ai ribelli di un emergente gruppo Stato islamico. Quando alla fine le truppe statunitensi si sono ritirate, lo Stato islamico ha assunto per molto tempo il controllo di un’ampia zona del paese e della vicina Siria.

Da sapere
Territorio diviso
fonte: council foreign relations

◆ Quasi la metà del territorio afgano è sotto il controllo dei taliban, che nemmeno durante i colloqui di pace con gli Stati Uniti e con il governo di Kabul hanno fermato gli attacchi contro i civili e le forze di sicurezza afgane. Il 21 aprile 2021 il ministero degli esteri turco ha fatto sapere che la conferenza in programma il 24 aprile con gli Stati Uniti, l’Afghanistan, il Qatar e le Nazioni Unite è stata rimandata a dopo la fine del ramadan. Il tempo guadagnato dovrebbe servire a far cambiare idea ai taliban, che non intendono partecipare a colloqui sul futuro dell’Afghanistan finché le truppe straniere non si saranno ritirate. Secondo Tolo News i taliban avrebbero chiesto agli Stati Uniti di liberare i settemila ribelli nelle carceri afgane e di eliminare le sanzioni dell’Onu contro i loro leader.


In Afghanistan, Ghani è determinato a combattere e ha promesso ai cittadini di ricorrere a ogni mezzo a disposizione per opporsi a una vittoria militare dei taliban: “Lo strumento per avere legittimità sono le elezioni. La nostra promessa e il nostro impegno nei vostri confronti è che il governo nazionale sarà trasferito a chi sarà eletto a succederci, secondo la vostra volontà”. È significativo che i taliban non si siano mai impegnati pubblicamente in elezioni né si siano mai detti disposti a condividere il potere con Kabul. Nelle loro dichiarazioni si sono concentrati sul ritiro delle truppe straniere più che sui meccanismi del dialogo o su un’ampia visione del futuro assetto politico del paese, se si esclude l’obiettivo di trasformare la “repubblica islamica dell’Afghanistan” in un “emirato islamico”.

Un vuoto da riempire

Con il ritiro degli Stati Uniti senza un accordo politico e la creazione di un vuoto che chiunque abbia potere e risorse potrebbe riempire, la guerra civile che incombe sull’Afghanistan rischia di trasformarsi rapidamente in una più estesa guerra per procura. In questo scenario paesi come Russia, Cina, Iran, Pakistan e India sosterrebbero i rispettivi protetti per mantenere l’influenza e il controllo su Kabul.

A prescindere dai legami che Russia, Cina e Pakistan intrattengono con i taliban, tutti questi stati si oppongono fortemente a una guerra civile e alla diffusa instabilità regionale che potrebbe derivarne. Un’altra stagione di conflitto aperto potrebbe generare nuove ondate di profughi nel vicino Pakistan in un momento in cui l’economia del paese è particolarmente scossa. Quanto a Russia e Cina, una guerra civile potrebbe destabilizzare sia il Caucaso sia lo Xinjiang, ora che Mosca e Pechino stanno portando avanti progetti infrastrutturali regionali. Il portavoce del ministero degli esteri cinese Zhao Lijian ha dichiarato di recente che Washington dovrebbe prendere in considerazione i timori dei paesi dell’area: “La situazione in Afghanistan è ancora complessa e difficile, e il problema del terrorismo non è affatto risolto. Le truppe straniere schierate nel paese dovrebbero ritirarsi in modo responsabile e ordinato per assicurare una transizione più agevole ed evitare che le forze terroristiche approfittino del caos”. Inoltre, ha aggiunto Zhao, “gli Stati Uniti legano il loro ritiro dall’Afghanistan alla sfida cinese. Questo riflette una radicata mentalità da gioco a somma zero, che è ereditata dalla guerra fredda e nuoce alla fiducia reciproca tra i due paesi”.

Sicurezza necessaria

Indubbiamente per la Cina la posta in gioco sulla sicurezza in Afghanistan è molto alta, ma è improbabile che Pechino possa rimpiazzare nel giro di poco tempo gli Stati Uniti nel ruolo di forza militare esterna. La Cina ha già offerto ai taliban “sviluppo” in cambio di “pace”. Mosca, dal canto suo, ha una storia sfortunata in fatto di guerre in Afghanistan, un pantano che ha contribuito pesantemente al crollo finale dell’Unione Sovietica.

Al tempo stesso, Cina, Russia, Iran e Pakistan sanno che i taliban difficilmente concederanno il potere a Kabul se sono in vantaggio sul campo, e non accetteranno neppure una formula di condivisione del potere che riduca la loro potenza militare o ridimensioni la forte posizione politica di cui godono al momento.

Partendo dai legami stabiliti con l’Afghanistan e i taliban, è probabile che nei prossimi cinque mesi i quattro paesi della regione spingeranno per un accordo che soddisfi i ribelli, vada bene a Ghani ed eviti una guerra civile. La maggior parte degli osservatori però non sa dire come potrebbero avere più successo degli Stati Uniti nel cercare di raggiungere la pace e la stabilità attraverso i negoziati. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati