È una tarda mattinata di marzo. L’aria è torrida e appiccicosa. Mahfuza Begum cammina sulla riva di un fiume. I suoi piedi nudi affondano nel fango mentre si allunga per toccare la sua barca, nera e sottile. Le dita callose controllano rapidamente le reti alla ricerca di nodi. Poi due donne e un uomo la aiutano a spingere la barca in acqua. A causa della corrente fanno fatica.

Senza dire una parola, Mahfuza sale a bordo, afferra il remo e si avvia. Supera le chiome dense e verdi delle mangrovie. Una brezza umida agita l’hijab che le avvolge la testa. La donna, 52 anni, lo rimette a posto e continua a remare. Perle di sudore tracciano una linea che va dalla tempia alla mascella.

Dopo circa cinque minuti Mahfuza si ferma al centro del fiume, si alza in piedi e con grazia lancia la rete bianca in acqua. Passano quindici minuti, poi la tira su. Mentre la maglia si solleva, un sorriso trionfante affiora sul suo volto. La rete è piena di gamberi.

C’è odore di fango. Si sente solo la corrente del fiume e il fruscio delle foglie. Le radici delle mangrovie emergono vicino alla riva. Nei punti in cui le chiome bloccano la luce del sole, appaiono ombre profonde. Oltre la riva la foresta nasconde quello che si muove tra i suoi confini.

Mahfuza ha sempre combattuto per sopravvivere. Per anni ha condotto la sua barca lungo i fiumi che serpeggiano attraverso le Sundarbans, una delle foreste di mangrovie più grandi del mondo, situata nel sudovest del Bangladesh. Il sistema fluviale è f0rmato da una rete complessa di canali che si dividono in corsi d’acqua più piccoli. L’acqua diventa più scura quando si avvicina alle chiome delle mangrovie. Il sole che le colpisce disegna motivi a chiazze.

Mahfuza è abituata ai pericoli che si annidano nella foresta e nelle sue acque torbide. I coccodrilli scivolano appena sotto il pelo dell’acqua, mentre le tigri si aggirano nei pressi degli argini. Sa bene come notare i segnali della loro presenza, dal silenzio al modo in cui si muove il fiume. “A volte l’acqua sembra calma, ma può nascondere molte cose”, dice.

Nel corso degli anni gli avvistamenti degli animali sono aumentati. A causa del restringimento della foresta e dell’incremento dell’attività umana, molti animali si spingono verso il percorso dei pescatori: “Ci siamo impossessati della loro terra, quindi loro cercano di prendersi la nostra”, spiega.

I coccodrilli, a volte, nuotano accanto alla sua barca. Quando colpiscono sono veloci. Mahfuza sa che è meglio evitare di sporgersi o di stare troppo vicina al perimetro dello scafo. Vede spesso i coccodrilli, soprattutto durante la stagione secca, quando il livello dell’acqua è basso.

Ha incontrato anche moltissime tigri, anche se i contatti sono stati quasi sempre fugaci: un rumore nella foresta, un paio d’occhi che brillano nel buio.

Gli occhi della tigre

Una mattina, nel 2019, ha tirato su la rete e ha notato che gli uccelli si erano zittiti. Si è girata e ha visto che una tigre la osservava dall’argine del fiume a pochi metri di distanza. Lentamente, ha preso in mano una pentola di metallo e l’ha sbattuta contro il legno della barca. Ma l’animale non si muoveva. Per un momento lei e la tigre si sono guardate negli occhi. Poi il predatore è sparito nella foresta. Mahfuza sapeva che fare rumore può spaventare le tigri, ma non sempre. E se ti attaccano non c’è niente da fare.

È convinta che quando in famiglia manca un uomo la donna debba svolgere sia il ruolo della madre sia quello del padre

Questo l’ha imparato 17 anni fa. Era un tardo pomeriggio e si trovava sul fiume insieme al suo primogenito Alamgir, al fratello maggiore Shahadat e a sua moglie. Erano a bordo di due barche. Verso il tramonto, Mahfuza e Alamgir hanno invertito la rotta per tornare a casa e prendere una nuova rete, perché quella che avevano era danneggiata. Mentre remavano Mahfuza ha sentito un ruggito.

Suo fratello si era avvicinato alla riva per riparare la rete. Una tigre l’ha attaccato, affondandogli i denti nel collo prima che riuscisse a emettere un suono. La moglie ha urlato mentre l’animale trascinava via suo marito, lasciando solo una pozza di sangue sulla barca. Quando Mahfuza è arrivata, ormai era troppo tardi. Era sconvolta, ma cercava di consolare la nuora e portarla a casa. “Prima che potessi reagire, Shahadat era sparito. La tigre se l’era portato nel cuore della foresta”, racconta. Quella notte circa 150 abitanti del villaggio si sono avventurati nella foresta con le torce. Le tigri, di solito, non cacciano la notte e hanno paura del fuoco. Sono riusciti a recuperare i resti di Shahadat e portarli nella casa di Mahfuza.

La mattina successiva lei era di nuovo sul fiume. Era spaventata, ma la paura è un lusso che non ha mai potuto permettersi. “Quando ho fame non c’è nessuno che mi dà da mangiare. Alla mia fame non importa nulla delle tigri. La mia fame mi porta al fiume per pescare”, spiega. “Se una tigre prenderà anche me, vorrà dire che era destino”, dice con voce ferma.

In questa giornata di marzo, prima di salire sulla barca Mahfuza si accovaccia sulla riva, con il cotone del suo sari rosso appiccicato alla pelle umida, per prendere un piccolo pesce.

Nel suo villaggio vivono circa otto pescatrici. Di età compresa tra i quaranta e i sessant’anni, di solito lavorano insieme ai familiari. Stamattina si sono presentate sulla riva, ma il caldo le ha convinte a non andare oltre. Mahfuza, invece, ci è andata lo stesso. Con un movimento calcolato, Mahfuza lancia la rete in acqua. È abituata a lavorare sotto il sole.

Una delle donne più giovani, seduta sotto l’albero, le chiede: “Non senti il caldo? È insopportabile”. Mahfuza non alza lo sguardo. Tira su la rete con un movimento fluido, sapiente. “Fa caldo, certo”, risponde. “Ma ai pesci non importa. E nemmeno a me”. Le donne sotto l’albero si scambiano uno sguardo. Alcune ridono, altre la osservano con rispetto.

Mahfuza riversa il piccolo pesce in un secchio d’acqua, che affida alle donne prima di riprendere la pesca. “Venite?”, chiede rivolgendosi alle donne. “O aspettate che il sole tramonti?”.

Una delle donne sghignazza: “Davvero non t’importa del caldo”.

Mahfuza sorride. “Il caldo fa parte della vita”, dice lanciando la rete in acqua.

Mahfuza è cresciuta a Ward No. 9, un villaggio popolato da 34mila persone sull’isola di Gabura, una delle circa duecento delle Sundarbans, circondata dal fiume Kholpetua. Vive ancora lì. Le famiglie di Ward No. 9 pescano e raccolgono il miele e la legna da vendere, ma non possono coltivare la terra perché la salinità dell’acqua del fiume penetra nel suolo.

La donna è nata in una delle famiglie più povere del suo villaggio. Suo padre lavorava a giornata e pescava quando aveva abbastanza soldi per affittare una barca. “Era il più povero dei poveri. Così cominciai a chiedere l’elemosina con lui, avevo sei o sette anni”, racconta. “Sempre a quell’età facevo la cameriera nelle case della gente, lavavo i piatti e i vestiti di altre persone”.

Quarta di sei figli, Mahfuza non è mai andata a scuola. Mangiava solo riso e sale. Indossava i vestiti malmessi che gli altri le regalavano. Ma quando suo padre tornava dal fiume era sempre curiosa. Giocava con la rete e i pesci che ogni tanto lui riusciva a prendere. “Non mi ha mai insegnato, perché non sapeva che le donne potevano pescare”, racconta senza dare spazio alle emozioni.

Quando aveva otto anni Mahfuza incontrò un uomo proveniente da una parte diversa del villaggio. Era sui quarantacinque anni. Pescava gamberi nel fiume. “Somigliava a mio padre, così ho pensato di chiedergli d’insegnarmi a pescare”. L’uomo rimase sorpreso da quella richiesta. Nel villaggio le donne non facevano quel mestiere, tanto meno le bambine. Ma Mahfuza spiegò che voleva sfamare la famiglia e l’uomo accettò. “È molto pericoloso. Se vuoi imparare, devi impegnarti”, le disse. Nel giro di qualche mese le insegnò come manovrare una barca e come individuare i segnali della presenza dei pesci, per esempio notando le bolle o le increspature sul pelo dell’acqua: “I pesci seguono la corrente. Quando l’acqua è calma, si nascondono in profondità. Quando è più mossa, invece, salgono in superficie per mangiare”.

“Non mi ha mai trattata come se fossi strana”, ricorda Mahfuza, che si esercitava nella pesca dalla riva. “All’inizio era difficile”.

Gli uomini del suo villaggio le dicevano: “Davvero vuoi pescare, bambina? Il tuo posto è ai fornelli”. Ma Mahfuza non si è arresa. “Se non volete che peschi, datemi da mangiare”, rispondeva. “Ora gli uomini del mio villaggio hanno paura di me”, dice sorridendo.

Senza un uomo

I genitori di Mahfuza l’hanno appoggiata in quella scelta, anche perché sfamava la famiglia. Le è servito molto tempo per imparare a maneggiare i pesci, a capirli. A dodici anni era già in grado di remare, gettare una rete e prendere pesci da portare a casa e vendere al mercato. “Non dovevo più chiedere l’elemosina. Mia madre poteva finalmente mangiare sardine, il suo cibo preferito. Ero orgogliosa”.

Oggi Mahfuza condivide con il nipote Lavlu una capanna con il tetto di lamiera fatta di assi di legno riciclate e dipinte di rosso, blu e verde.

Gabura si raggiunge in cinque minuti di barca a motore dalla terraferma. Dato che non ci sono strade asfaltate, per arrivare alla casa di Mahfuza sul lato opposto dell’isola si può usare solo una moto o una bicicletta lungo un percorso sterrato. La capanna di Mahfuza è a pochi metri dall’acqua, circondata dalle palme. Le barche riposano poco lontano.

Biografia

1973 Nasce sull’isola di Gabura, in Bangladesh.
1981 Convince un uomo del suo villaggio a insegnarle a pescare.
2003 Il marito la abbandona, lasciandola da sola con tre figli.
2008 Suo fratello Shahadat viene ucciso da una tigre mentre sta pescando sul fiume.
2018 Sopravvive a un attacco dei pirati insieme a un altro fratello.


Come la maggior parte delle donne del suo villaggio, Mahfuza si è sposata prima di compiere 16 anni. Poi 22 anni fa suo marito, anche lui lavoratore a giornata, l’ha lasciata per un’altra donna, abbandonando anche i tre figli piccoli. “Li ho cresciuti, li ho sfamati e li ho visti partire da casa dopo essersi sposati. Ho fatto tutto quello che potevo per loro”, spiega Mahfuza, sistemandosi l’hijab dietro l’orecchio.

Mahfuza è convinta che quando in famiglia manca un uomo, la donna debba svolgere sia il ruolo della madre sia quello del padre. Ma quando lo dice la sua voce trema un po’. Oggi i suoi due figli maschi, entrambi lavoratori a giornata, e sua figlia, divorziata e risposata, vivono altrove. Non vogliono ospitare né aiutare Mahfuza, o non ne hanno le possibilità economiche. “Hanno dimenticato tutti gli anni in cui mi sono occupata di loro”, dice.

Mahfuza ha mantenuto Lavlu, figlio di prime nozze di sua figlia, fino alla quinta classe. Ma la sua attività di pescatrice non bastava a sfamare entrambi. Così è stata costretta a prendere la decisione difficile di mandarlo a lavorare quando aveva dieci anni. Oggi Lavlu ha quindici anni e trasporta l’argilla da trasformare in mattoni. Mahfuza teme per il suo futuro: “Mio nipote è tutta la mia famiglia, non ho altro”.

La giornata di Mahfuza comincia alle cinque del mattino. Si sveglia per la preghiera e poi si prepara per uscire. Alla sera, con i capelli pieni di sabbia di fiume e terra, torna a casa e fa il bagno nello stagno.

Pesca più o meno cinque chili di pesce al mese. Ne tiene un chilo per sé e Lavlu. Il resto lo vende, guadagnando circa diecimila taka (dieci euro), che devono bastare per la loro sopravvivenza.

Il lavoro cambia con le stagioni. Nei mesi più caldi pesca gamberetti e hilsa (un pesce simile alle aringhe), mentre in quelli più freschi si concentra sui pesci più grandi e sui granchi.

Nei giorni migliori riesce a guadagnare qualche centinaio di taka, abbastanza da coprire le spese che includono l’affitto della barca. Il lavoro è sempre imprevedibile. “Alcuni giorni sono buoni, altri torno a casa a mani vuote”, spiega.

Le stagioni creano altre difficoltà. I divieti imposti dal governo, che proibisce la pesca per cinque mesi durante il periodo riproduttivo dei pesci per salvaguardare le specie, complicano le cose. In quei mesi Mahfuza e Lavlu sono spesso costretti a prendere in prestito riso o soldi. Altre volte soffrono la fame. “Se il governo vuole proteggere le specie dovrebbero proteggere anche noi”, spiega. Da maggio a ottobre, nella stagione dei monsoni, rischia di essere travolta dalle piogge. È capace di prevedere una tempesta affidandosi al vento, al colore del cielo e al comportamento delle onde sul fiume. “Quando il cielo diventa più scuro e il vento cambia so che devo tornare rapidamente a riva”, osserva.

Ostaggi dei pirati

I pirati a volte attaccano le barche da pesca, soprattutto quelle isolate. Sette anni fa Mahfuza e un altro dei suoi fratelli stavano pescando quando sono stati circondati da cinque uomini armati e a volto scoperto, che li hanno presi in ostaggio. Poi una barca della guardia costiera è apparsa in lontananza. I pirati, in preda al panico, li hanno spinti in acqua.

Essendo l’unica a procurare da mangiare per i suoi figli, non aveva avuto scelta. Doveva tornare sul fiume. “Quando i miei figli piangevano per la fame non mi preoccupavo dei pirati”, racconta.

Negli ultimi 44 anni Mahfuza ha affrontato tigri, coccodrilli, cicloni e pirati, oltre ad aver sfidato la sua stessa comunità per sfamare la famiglia. “Non ho bisogno di un uomo. Remo da sola. Vado nella foresta da sola. Posso pescare e portare a casa la legna. Non ho bisogno di nessun altro”, dice.

Quando torna a casa dopo la mattinata di pesca, verso mezzogiorno, la sua vicina Nur Nahar va a incontrarla insieme ad altre donne. Nur ha poco più di sessant’anni e spesso pesca con i nipoti.

Tra le lotte e i pericoli quotidiani, Mahfuza ha trovato forza nell’amicizia che ha costruito con le altre pescatrici. “Ci prendiamo cura l’una dell’altra”, spiega con un sorriso. Le pescatrici possono contare solo sulle proprie forze. Durante i periodi segnati dal divieto di pesca, condividono le poche risorse e cercano di assicurarsi che nessuna vada a dormire affamata. Hanno imparato che non possono contare su nessun altro, quindi hanno creato una loro famiglia.

Cinque anni fa il marito di Nur è morto d’infarto e sua sorella è stata uccisa da una tigre. “Quando ho perso mio marito non volevo più vivere, ma queste donne mi hanno sostenuta nei momenti in cui quasi non mi reggevo in piedi”, confessa Nur.

“Nessun altro capisce il peso dell’acqua sulla nostra schiena”, spiega Mahfuza. “Lo portiamo insieme. Combattiamo, ridiamo, peschiamo”, dice sorridendo. “Così va la nostra vita”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati