Anessuna è andata bene. Calipso a Ogigia, Malefica nella brughiera e anche Wanda Maximoff a West­view. Alle streghe dei racconti va sempre nello stesso modo: creano un piccolo paradiso circondato da mura, ma lasciano aperta una porta. Così alla fine, da quella porta l’uomo che bramano scappa. È una vecchia storia.

Ok, ma provate a dirlo a tutti quelli che si occupano di questi giardini fortificati, alle creature che hanno la sfortuna di vivere insieme all’eroe e alla fattucchiera. Ditelo ai vicini di Ursula, la strega della Sirenetta, trasformati in alghe. Ditelo a quelli che vivevano con la Strega Bianca nelle Cronache di Narnia, pietrificati nel suo castello. Nel locus amœnus (“luogo incantevole”, un tema ricorrente in arte e letteratura) di una strega ci sono sempre vittime collaterali, e per loro il locus non risulta quasi mai amœnus. In WandaVision sono Dottie, Beverly e gli abitanti di West­view che danno colore e brusio a questo piccolo tartaro suburbano. Non sono alghe né statue, ma la loro situazione è molto peggiore: sono simulacri frastornati. Westwiew è un inferno ridicolo, uno dei peggiori inferni metaforici che esistano.

La cattedrale della metafinzione

Lo so: WandaVision è una serie autocosciente e metaimmaginaria, e le sacre norme della cultura stabiliscono che di conseguenza dobbiamo anteporre questo a tutto. È così dai tempi di Jean-François Lyotard, siano maledetti i suoi scritti. Tra l’altro WandaVision non è semplicemente metaimmaginaria. È un’autentica cattedrale della metafinzione, perché la cosa non merita altra definizione. È un piccolo ziggurat, un piccolo albero di natale. Che crossover, che easter egg, che modo di sfondare la quarta parete. È divertente, non dico di no, e costituisce una sanissima novità nell’universo cinematografico Marvel, di solito sperimentale quanto un convento carmelitano. Il fatto è che la gente si esalta, quando in realtà non sembra ci sia niente di particolarmente rivoluzionario.

Le porte aperte nella quarta parete di WandaVision non conducono alla realtà, ma sempre al racconto. Sono un labirinto, qualcosa che avanza solo in orizzontale, mentre la metafinzione comporta la subordinazione della narrazione, dev’essere verticale. Nella serie si trovano alcuni agganci che conducono alla realtà (il più significativo riguarda l’aspetto di Pietro), ma sono solo piccole pennellate.

Stampa tratta da L’atmosfera di Camille Flammarion (Wikimedia commons)

Quando Wanda guarderà in macchina e dirà: “Sono Elizabeth Olsen”, allora sì, promesso, correremo al balcone e le canteremo la saeta. Fino ad allora assisteremo solo a una messa in scena dell’autocoscienza, non a una vera autocoscienza. Occhio, non stiamo criticando la serie. Semmai critichiamo tutti quelli convinti, e sono molti, che Disney abbia appena inventato le nivole di Unamuno.

Notevole invece è il lavoro di Jac Schaeffer, la creatrice di WandaVision, con tutti i fronzoli che adornano la serie: fa in modo di propinare al pubblico una storia vecchissima senza che quello se ne accorga. WandaVision è al centro di un diagramma di Venn con tre cerchi che s’intersecano: uno è il mito di Calipso e Ulisse, uno è quello di Orfeo ed Euridice e il terzo è quello di Galatea e Pigmalione. Sintezoidi a parte, questa storia avrebbe potuto scriverla Euripide. Se poi siete tentati di pensare che il tema della simulazione della realtà sia qualcosa di esclusivamente contemporaneo, date un’occhiata alla stampa resa celebre da Camille Flammarion, e ditemi che non è Vision che cerca di uscire da Westview.

Insomma, niente di male ma neanche niente di nuovo. In WandaVision però c’è qualcosa di audace e scaltro che merita un applauso: è una storia su Galatea e Pigmalione in cui lui è Galatea e lei è Pigmalione. Lui è la statua sexy, il robot imbottito di licra, il pezzo di carne con occhi per cui salpano mille navi, mentre lei è il personaggio carismatico, scriteriato e donchisciottesco che si permette di spazzare via il mondo intero pur di conservare il golem tra le lenzuola. Tra i grandi archetipi dei racconti, questo continua a essere uno di quelli che resistono meglio alla sovversione. Guardando indietro e limitandoci ai film e alle serie decenti, se c’è un clone, un replicante, un robot o qualsiasi altra classe di essere umano artificiale che funge da oggetto del desiderio, quasi sempre è una donna. Non è solo una questione politica o di princìpi, la tv non la guardano solo gli uomini eterosessuali. Ci piace vivere questa storia, quella di Galatea e Pigmalione, come si dovrebbe vivere per davvero: con la testa e il cuore, ma anche con il sesso. Senza l’aspetto del desiderio Lei, Ex Machina, Blade Runner, Battlestar Galactica o Ghost in the shell sono prodotti poco più che ordinari.

Elizabeth Olsen (disney+)

Prodotto per adulti

Certo, WandaVision non porta il racconto all’estremo. Né Wanda né Vision sono seducenti, per quanto i ruoli di strega e di statua viva si prestino a questa deriva. La loro relazione non smette mai di essere puramente dialettica. “Ma è Disney!”, direte. E allora? Non è una storia per bambini. Si gioca con la nostalgia, e la nostalgia è un prodotto per adulti, non esiste un principio più evidente di questo. Non c’era bisogno di essere espliciti. Sarebbe stato sufficiente un gesto, qualcosa che ci facesse capire che in questa storia d’amore delirante, come del resto in tutte le storie d’amore deliranti, non c’è solo l’amore, ma anche il desiderio. Qualcosa che ci rendesse consapevoli che la follia di Wanda è proprio questo: follia. Altrimenti non minaccerebbe di distruggere il mondo intero. Come il resto delle serie e dei film Marvel, anche WandaVision è un prodotto per adulti che finge di essere adatto ai bambini. Un racconto censurato dove le cose accadono ma non si mostrano. E questa non è mai una buona cosa.

Sul piano della nostalgia emerge un altro tic. Le realtà artificiali coperte con lo stile di vita americano – con steccati bianchi e torte di mele che si raffreddano sul davanzale della finestra – sono un luogo comune della storia del cinema, ma WandaVision ripassa i cliché con insistenza ossessiva, come se li stesse creando. E allo spettatore si chiede di fare il tonto, come gli abitanti di Westview.

Nonostante tutto, WandaVision è una serie stupenda che semplifica con precisione qualcosa che non abbiamo interiorizzato abbastanza: per risolvere i problemi del mondo dobbiamo raccontare più miti greci. Ma non solo. Orfeo cercò di salvare Euridice, ma duemilacinquecento anni dopo ancora non è capitato che Euridice salvi Orfeo.

Abbiamo bisogno di raccontare questi miti alla rovescia fino a quando smetteremo di avere l’impressione che siano stati ribaltati. Solo allora tutti i miti del mondo saranno stati raccontati. E solo allora potremo cominciare a raccontarne di nuovi. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1400 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati