Tal al Hawa, Striscia di Gaza. La notte dell’11 maggio mia moglie, sei bambini e io ce ne stavamo rannicchiati nel salotto del nostro appartamento, il posto con meno probabilità di essere colpiti dai missili israeliani o dai detriti che producono. È saltata la corrente mentre guardavamo la diretta di Al Jazeera sull’imminente distruzione di Al Jawhara, uno degli edifici più grandi di Gaza. Linah, che ha otto anni, ha chiesto sonnacchiosa se “loro” potevano distruggere il nostro palazzo ora che l’elettricità era andata via.

Il giorno dopo sarebbe stato il compleanno di Amal. Compiva sei anni. Da due anni ha preso l’abitudine di trascorrere sei mesi pregustando e pianificando il compleanno che arriverà, seguiti da altri sei mesi in cui ripercorre il giorno della festa. Amal è più silenziosa di sua sorella Linah ed è ancora un po’ ingenua. Vorrei che fosse ancora più ingenua. Quando si è svegliata mercoledì mattina, non ha chiesto la torta o le candeline. Sapeva che c’era qualcosa che non andava. Percepiva la paura nella famiglia. Sentiva i bombardamenti costanti. Mia moglie Nusayba ha insistito per festeggiare comunque. “Dovrebbe essere un giorno di speranza”, ha detto. Certo, decine di famiglie a Gaza hanno perso la casa negli ultimi giorni, e un sacco di persone sono morte. Non è il momento per feste o torte. “Ma non possiamo arrenderci a Israele”, ha detto lei.

Sono sgattaiolato fuori di casa, assicurandomi di non indossare la mia mascherina per paura che i droni israeliani mi scambiassero per un obiettivo. Ho comprato ad Amal i suoi dolcetti preferiti: mandorle di Giordania e biscotti al cioccolato. Quando sono rientrato, siamo riusciti a fare una versione silenziata di Sana helwa (buon compleanno). Amal ha sorriso esitante. L’ho guardata e le ho promesso che le comprerò la torta più grande di tutte quando “questo” sarà finito.

Il lunedì precedente, colto alla sprovvista dagli attacchi, non avevo raccontato ai miei bimbi le loro storie della buonanotte come sempre. È stato un errore che cercherò di non ripetere. Da allora ho cominciato a modificare leggermente le storie a causa dei bombardamenti. Nella versione originale di un racconto che ho inventato per i bambini, due gattini muoiono di abbandono perché il loro padrone è distratto. Ora dico che i gattini appartengono a una ragazzina di nome Amol e si ammalano, ma sono nutriti fino a tornare in salute, perché Amol è premurosa e buona.

A Gaza quando i genitori finiscono una favola, recitano un ritornello in rima: “Toota toota, khalasat el hadoota. Hilwa walla maltouta?” (La storia è finita. Era bella o no?). I bambini di solito rispondono urlando “Maltouta”, per dire “non era bella” e che ci vuole un’altra favola. Martedì, quando ho fatto questa domanda, Linah e Amal hanno risposto nervosamente: “Hilwa” (bella). E basta.

Molti abitanti di Gaza che conosco sono riusciti a malapena a riposare un po’ dall’inizio della settimana. Come ha scritto su Twitter il mio amico Hassan Arafat, “non dormiamo, sveniamo dalla stanchezza”. Qui non ci sono sistemi di allerta supertecnologici che ci avvertono dei missili in arrivo o ci dicono di trovare riparo. Dobbiamo imparare a leggere l’andamento degli insensati bombardamenti israeliani. Essere un buon genitore a Gaza significa sviluppare un sesto senso per capire le prossime mosse dei droni e degli F-16. La notte del 12 maggio, dopo due ore di incessanti bombardamenti e una pioggia di missili israeliani su tutta la Striscia di Gaza (alcuni sono atterrati a poche centinaia di metri dal nostro palazzo) riusciamo finalmente a prendere un po’ di sonno. I missili scuotono tutta la zona per diversi secondi. Poi si sentono le urla. Intere famiglie si riversano in strada. I nostri bambini erano saltati a sedere sul letto, tremanti, senza dire niente. È qui che arriva la decisione insopportabile. Sono preso tra due fuochi: da una parte voglio portare la mia famiglia fuori, nonostante i missili, le schegge e le macerie; dall’altra voglio che rimaniamo a casa, anche se siamo bersagli facili per gli aerei “made in Usa” pilotati dagli israeliani. Siamo rimasti a casa. In caso almeno moriremo insieme, ho pensato.

Gli assordanti attacchi distruggono le infrastrutture, interrompono le strade che portano agli ospedali e le forniture di acqua, fanno saltare internet. Molti obiettivi colpiti da Israele non hanno valore strategico. Israele lo sa, e sa che questo ci snerva. Mi chiedo cosa facciano questi ufficiali nei loro centri di comando: tirano a sorte per decidere quale isolato devastare? Lanciano un dado? Il 12 maggio è stato l’ultimo giorno di Ramadan. Il mese sacro di digiuno si conclude con l’Aid al fitr, una festa considerata la seconda più bella dell’islam. I bambini indossano i loro vestiti nuovi e ricevono regali dai parenti. I musulmani in Palestina visitano le loro famiglie e mangiano insieme. Questo Aid, però, non è andato così.

Nella media

La mattina del 13 maggio a Gaza 69 persone erano state uccise dalle incursioni aeree israeliane, tra cui alcuni comandanti di Hamas, il gruppo che governa la Striscia, e 17 bambini. Almeno sette israeliani, tra cui un bambino, erano morti a causa delle centinaia di razzi lanciati da Hamas. Nel 2014, nel corso dell’ultima guerra, Israele ha ucciso mio fratello Hamada e ha distrutto il mio appartamento abbattendo la casa di famiglia, in cui abitavano 40 persone. Ha ucciso il nonno di mia moglie, suo fratello, sua sorella, e i tre figli di sua sorella. Non abbiamo ancora superato quel trauma. Non abbiamo ancora finito di ricostruire le case che Israele ha distrutto sette anni fa.

Nusayba e io siamo una coppia palestinese perfettamente nella media: tra tutti e due abbiamo perso più di trenta parenti. In questi giorni, mentre di notte siamo distesi nell’oscurità, temo il peggio. E temo il meglio. Se ne usciremo vivi, come se la caveranno psicologicamente i miei figli nei prossimi anni? Vivranno nel terrore costante del prossimo attacco?

L’11 maggio Linah ci ha rifatto la domanda a cui né io né mia moglie avevamo risposto: possono distruggere il nostro palazzo se la corrente è saltata? Volevo dire: “Sì, Linah, Israele può distruggere Al Jawhara o uno qualunque dei nostri palazzi anche nell’oscurità. Le nostre case sono un fastidio per la macchina da guerra israeliana, la ossessionano, anche nell’oscurità. Non sopporta la loro esistenza. E con i dollari delle tasse statunitensi e con la comunità internazionale, Israele probabilmente continuerà a distruggere i nostri palazzi finché non sarà rimasto niente”. Ma non posso dire a Linah niente di tutto questo. Quindi mento: “No, amore. Non possono vederci al buio”. ◆ fdl

Refaat Alareer _ è uno scrittore palestinese. Insegna letteratura comparata e scrittura creativa all’università islamica di Gaza._

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Questo articolo è uscito sul numero 1410 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati