Con il divieto di accogliere nuovi studenti stranieri, notificato il 22 maggio ad Harvard (che ha un quarto di iscritti non statunitensi e provenienti da 140 paesi), il braccio di ferro tra Donald Trump e la più antica università degli Stati Uniti si è intensificato. Harvard ha subito presentato ricorso, per evitare la minaccia di espulsione che incombe sugli studenti già iscritti (il 23 maggio un giudice ha bloccato temporaneamente il provvedimento della Casa Bianca). Ma la prova di forza del presidente continua a far paura, anche perché – come ha ricordato la responsabile della sicurezza interna Kristi Noem – quello che succede ad Harvard “deve servire da monito a tutte le istituzioni accademiche”.

Quest’affermazione rafforza le ragioni di chi crede che il vero intento della Casa Bianca non sia combattere l’antisemitismo, ma controllare le università, da sempre baluardi di spirito critico e libertà di pensiero. Se è vero che le autorità di Harvard, come altre, hanno commesso degli errori nella gestione delle manifestazioni scatenate dalla guerra a Gaza, fino a mettere in pericolo gli studenti ebrei, è però difficile pensare che questo possa giustificare una punizione collettiva dell’intera comunità universitaria, praticamente il commissariamento dell’istituzione, con i suoi programmi, le pratiche per le assunzioni e la selezione degli studenti.

Con la sospensione dei finanziamenti federali e la decisione di mettere in discussione le esenzioni fiscali, l’attacco contro gli studenti stranieri tradisce la volontà di mettere Harvard in ginocchio. Ma a quale scopo, a parte la battaglia ideologica o il desiderio di vendetta personale? Gli studenti stranieri rappresentano una risorsa per l’università e per l’economia locale, ma sono soprattutto una fonte essenziale di arricchimento intellettuale per l’intero paese. Privarsene – spaventandoli o espellendoli – significherebbe minare uno dei fondamenti della potenza statunitense: il primato nei campi del sapere e della scienza. Eppure la concorrenza non è mai stata così agguerrita. Basta osservare i grandi progressi cinesi nei settori della ricerca spaziale e dell’intelligenza artificiale. Forse gli Stati Uniti vogliono autosabotarsi? ◆ ap

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati