Avete voglia di creare un’etichetta discografica e diffondere buona musica senza finanziarne la registrazione né pagare gli artisti? Si può fare. Basta pescare tra le migliaia di brani diventati di pubblico dominio. Una manna che comprende classici come le canzoni di Georges Brassens e Charles Aznavour o l’album Kind of blue di Miles Davis (1959). Sulle piattaforme di streaming questo capolavoro è ormai disponibile in tante versioni. Quella ufficiale, pubblicata dalla Columbia (Sony), convive con almeno una decina di versioni caricate online da strutture come FM Records, Zoroty Distribution o RevOla.
Queste entità, che inondano i siti di streaming con una valanga di versioni di uno stesso album, operano (almeno quelle che siamo riusciti a identificare) in Italia, in Tennessee o nel Regno Unito. Alcune non esistono più, ma i titoli continuano a generare guadagni.
Una legge complessa
Ne beneficiano quindi i distributori, come la statunitense The Orchard (filiale di Sony) o la tedesca Zebralution (che dipende dalla Gema, la Siae tedesca). L’invasione di succedanei è resa possibile dalla legge che regola la proprietà intellettuale. Jean-Marie Guilloux, avvocato parigino specializzato nel diritto d’autore, spiega: “Le leggi sulla proprietà intellettuale, applicabili nell’Unione europea, stabiliscono che i diritti dei produttori sono protetti per cinquant’anni. Dopodiché le registrazioni diventano di pubblico dominio. C’è un’eccezione: per tutti i titoli registrati a partire dal 1963 i diritti dei produttori durano settant’anni, a condizione che le opere siano state fissate su fonogrammi. È uno dei motivi per cui le grandi etichette pubblicano molti titoli inediti del loro back catalog. Sfruttandoli, posticipano la scadenza dei diritti e al contempo allargano la loro presenza sul mercato”. Ma questa eccezione riguarda le registrazioni successive al 1962, dunque nessuno potrà impedirvi di pubblicare online Douce France di Charles Trenet (1947) o L’eau vive di Guy Béart (1958). La legge è complessa perché separa i diritti d’autore e quelli che vengono definiti “diritti connessi”, di cui fanno parte i diritti del produttore. “Peraltro i diritti del compositore sono protetti fino a settant’anni dopo la morte dell’ultimo coautore della canzone”, prosegue Guilloux.
Queste norme non si applicano negli Stati Uniti, dove solo le composizioni precedenti al 1930 rientrano nel pubblico dominio. E spesso le loro registrazioni sono protette da un’interpretazione rigida del diritto d’autore. Le canzoni del bluesman Robert Johnson sono ancora protette negli Stati Uniti (i diritti appartengono alla Sony) mentre in Europa i diritti dell’etichetta che le aveva pubblicate sono ormai di pubblico dominio. In sostanza chiunque in Europa può distribuire le canzoni di Robert Johnson, morto nel 1938, mentre le copertine degli album potrebbero essere ancora protette.
È impossibile valutare con precisione quanti titoli siano diventati di pubblico dominio e siano stati diffusi online da strutture o individui opportunisti. Ma parliamo di centinaia di migliaia di canzoni. Uno tsunami di surrogati che mette in allarme le etichette discografiche.
Il direttore generale del Sindacato nazionale francese della fonografia (Snep) Alexandre Lasch ha sottolineato che “il sindacato non contesta il quadro giuridico, ma il fatto che la presenza sulle piattaforme di numerose versioni dello stesso fonogramma possa creare problemi per gli utenti nell’identificare la registrazione originale”. Lasch si riferisce al fonogramma che garantisce la migliore qualità d’ascolto perché è l’unico a essere stato realizzato a partire dal master originale. Marc Zisman, del servizio di streaming Qobuz, specializzato nei formati ad alta risoluzione, è dello stesso parere. “Con questa invasione di etichette oscure è inevitabile che molte operino a partire da cd copiati o da file mp3”.
Non tutte le etichette che pubblicano brani di pubblico dominio sono gestite da volgari approfittatori e secondo Romain Vivien, del distributore francese Believe, il tema non è nuovo. “Il dibattito esisteva già all’epoca dei supporti fisici, ma è stato ampliato dal passaggio al digitale. Dopo settant’anni i costi di registrazione sono ampiamente coperti. Alcune etichette che avevano pubblicato l’opera originale sostengono di voler proteggere l’esperienza del consumatore, ma in realtà spesso puntano a riappropriarsi delle registrazioni, ovvero riprivatizzare i brani ormai di pubblico dominio”.
Costi e benefici
La prospettiva di Bertrand Burgalat, proprietario dell’etichetta Tricatel, è molto diversa. “Mi sono reso conto del problema curando alcune trasmissioni per la radio France Inter. Ho scoperto che molti titoli precedenti al 1963, spesso dei capolavori, erano stati pubblicati online dalla Bibliothèque nationale de France (Bnf)”. Tutte le registrazioni pubblicate in Francia devono in effetti essere inviate presso la biblioteca nazionale per il deposito legale. Nel 2013 la Bnf ha digitalizzato 42mila registrazioni di pubblico dominio. Fabrice Menneteau della Bnf spiega che si è trattato di un’operazione di accessibilità, di conservazione e di ricerca. Ma pur ammettendo i buoni propositi Burgalat s’interroga su una tendenza che produce una “sorta di appropriazione del deposito legale”: “Mi chiedo dove finisca il denaro generato dall’ascolto di questi titoli sulle piattaforme”. La Bnf ha usato una parte degli incassi per coprire le spese della digitalizzazione. Per il resto, i guadagni rimpinguano le casse delle etichette, che siano i produttori dei brani o no. Quantificare le cifre è difficile. La situazione infastidisce Zisman, di Qobuz. “Dove va a finire il denaro? Di quali somme parliamo? Chi sono le persone che pubblicano online tutti questi titoli?”. I distributori non sembrano disposti a fare chiarezza.
Il fatto che non esista alcun limite legale per pubblicare a scopo commerciale online una registrazione di pubblico dominio aggrava la già pesante saturazione del mercato. Secondo Burgalat una soluzione potrebbe essere il pagamento dell’upload dei brani. “Imporre un costo al caricamento online di ogni brano ostacola chi ne approfitta e rallenterebbe la marea di musica che finisce in rete ogni giorno”.
Vivien, dal canto suo, immagina un sistema in cui gli incassi derivati dai brani di pubblico dominio possano essere reinvestiti per favorire il lancio di nuovi talenti. “È un meccanismo classico: il catalogo finanzia la novità. I guadagni del pubblico dominio potrebbero essere assegnati al Centro nazionale della musica per aiutare i produttori indipendenti”. Una cosa è certa: il vaso di Pandora della diffusione digitale della musica di pubblico dominio è ormai aperto. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 87. Compra questo numero | Abbonati