Adifferenza di molti suoi predecessori, il giovane Benjamin Netanyahu non pensava a una carriera in politica. Era cresciuto all’ombra di un fratello maggiore, Yoni, allevato dalla famiglia – e in particolare dal padre Benzion – come un futuro leader. Bibi voleva diventare un uomo d’affari statunitense. Furono la morte di Yoni, durante un’operazione per liberare degli ostaggi a Entebbe, in Uganda, e il naturale talento che Benjamin mostrava nelle apparizioni in tv a lanciare quella che probabilmente è stata la carriera politica di maggior successo nella storia israeliana.
Netanyahu lascia l’incarico da premier dopo un mandato senza precedenti di dodici anni consecutivi, che si sommano a un altro mandato di tre anni negli anni novanta, un risultato che molti osservatori ritenevano impossibile nel frammentato e caotico sistema politico di Israele.
Nel 2009 le forze che spingevano per un cambiamento erano già in declino
La domanda che ci si dovrebbe fare non è se Netanyahu tornerà al governo, ma piuttosto che eredità si lascia alle spalle, e se le correnti sotterranee che l’hanno portato al potere e che gli sono state favorevoli stiano invertendo il loro corso. Questo episodio riguarda solo Bibi (come viene chiamato Netanyahu) o si tratta di una trasformazione più significativa, che potrebbe determinare un vero cambiamento in Israele-Palestina?
La questione palestinese è stata e rimane la più decisiva in Israele e influenza ogni aspetto della politica. Tutte le caratteristiche della società israeliana – dal ruolo dell’esercito allo status legale della religione ebraica alle leggi che regolano la ripartizione delle terre – sono legati alla questione palestinese.
All’inizio del mandato di Netanyahu sostenevo che la sua ascesa indicava una scelta strategica degli israeliani di mantenere lo “status quo”, per esercitare un controllo su milioni di palestinesi. Tutto quello che è accaduto da allora l’ha confermato. Il blocco di Gaza non è stato tolto; l’Autorità Nazionale Palestinese è rimasta in un ruolo di subappaltatore per Israele nella Cisgiordania occupata invece di formare uno stato; la colonizzazione è andata avanti e la knesset ha adottato la legge sullo stato-nazione, che consolida lo status della maggioranza ebraica ed emargina i cittadini palestinesi.
Una linea conflittuale
Alcune di queste questioni erano vaghe, o almeno erano considerate tali, nel febbraio del 2009, quando Netanyahu diventava di nuovo premier. Ora, mentre lui lascia l’incarico, una nuova generazione di israeliani e palestinesi si è abituata a vedere questi assetti – “l’insostenibile status quo” – come indiscutibili.
È vero che nel 2009 le forze che spingevano in direzione di un cambiamento erano già in declino. Il movimento palestinese non si sarebbe mai ripreso dalla morte di Yasser Arafat, dagli accordi di Oslo e dalla seconda intifada. Gli Stati Uniti e il resto del mondo perdevano interesse nel Medio Oriente; l’economia israeliana era in ascesa, guidata dal settore tecnologico e dall’industria militare; e i paesi arabi non riuscivano a tenere il passo. È stato Netanyahu a riconoscere questi sviluppi, o piuttosto a scommetterci sopra, all’inizio.
La primavera araba è stata forse l’evento che ha favorito di più Netanyahu. Le guerre civili scoppiate sulla sua scia e l’ascesa del gruppo Stato islamico hanno orientato tutti, compresa la leadership palestinese, verso lo status quo. E hanno aperto la porta alla competizione israelo-iraniana per esercitare influenza nella regione, diventata il fulcro delle ambizioni geopolitiche di Netanyahu, e hanno permesso l’alleanza tra Israele e gli stati del Golfo, sfociata negli accordi di Abramo.
Netanyahu si è mostrato abile ad adottare una linea conflittuale che ha gradualmente cambiato l’intero sistema politico israeliano. Mantenendo la strategia dello status quo, è diventato un leader decisivo per Israele e per tutta la regione.
Paradossalmente, lo spazio marginale nella psiche israeliana per le questioni riguardanti l’occupazione e le colonie ha permesso la formazione del bizzarro governo che ha fatto cadere Netanyahu, con partiti di sinistra, di destra, di centro e perfino uno arabo e come premier Naftali Bennett, ex capo del Consiglio dello Yesha, l’organizzazione che raggruppa il movimento dei coloni.
Netanyahu ha portato dei cambiamenti anche dal punto di vista interno. Nel 1996 è salito al potere in sella a quella che era nota come “la coalizione dei falliti”, un’unione di comunità e minoranze che occupavano il livello più basso della gerarchia politica, sociale, economica e culturale ebraica: ebrei mizrahi (discendenti da famiglie provenienti dai paesi arabi e musulmani); immigrati di prima generazione dall’ex Unione Sovietica; nazional-religiosi (il nucleo del movimento dei coloni), caduti in disgrazia dopo l’omicidio di Yitzhak Rabin; e gli ultraortodossi, una delle comunità più povere di Israele. Netanyahu ha superato tutte le fratture e le contraddizioni interne nel nome di una causa comune: abbattere la vecchia élite composta per lo più da ebrei ashkenaziti (europei), che detenevano gran parte delle posizioni di potere nell’economia, nel sistema giudiziario, nel mondo accademico, nei mezzi d’informazione e, in una certa misura, nell’esercito.
Per la destra portare avanti la causa degli ebrei diseredati andava di pari passo con il mantenimento di una condizione d’inferiorità per i palestinesi. Su alcuni fronti, i governi di Netanyahu hanno investito sui cittadini palestinesi come nessuno aveva fatto prima. Ma solo se significava aprire le porte ai palestinesi come individui, impedendogli di sfidare gli assetti costituzionali, i simboli dello stato e la distribuzione delle terre.
Non è stata tutta opera di Netanyahu. Hanno fatto la loro parte anche i social network, i cambiamenti globali ed economici e le dinamiche demografiche. Il paese che l’ex premier si lascia alle spalle sembra più multiculturale che mai, anche per quello che riguarda la visibilità dei palestinesi nella sfera pubblica. Però è anche un paese più a suo agio con la visione di uno stato etnico, con l’idea della supremazia ebraica e con un assedio a Gaza e un regime di occupazione nella Cisgiordania mantenuti grazie a un’avanzata tecnologia di sorveglianza, un controllo affidato a subappaltatori e una forza militare letale.
Lezione per il futuro
E ora che succederà? Netanyahu ha portato gli israeliani e i palestinesi fuori dall’epoca delle intifada e dei negoziati, in una realtà all’apparenza permanente dove c’è un regime in cui gli ebrei detengono quasi tutte le risorse e i privilegi. Non è una coincidenza se l’unico gruppo palestinese che ha fatto progressi è quello dei palestinesi cittadini d’Israele, che seppure ancora fortemente discriminati hanno sfruttato al meglio il loro accesso al sistema politico e la possibilità di votare e di essere eletti.
Ma finché il resto del popolo palestinese – a Gaza, Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella diaspora – sarà incapace di riorganizzarsi e di rappresentare una sfida politica coerente a Israele, e in assenza di uno stimolo forte dall’esterno, le strutture attuali probabilmente resisteranno, soprattutto perché il nuovo governo non ha il mandato e il consenso necessari al cambiamento. Nel breve termine, la società israeliana si piegherà ancora di più su se stessa, mentre in molti cercheranno di ottenere vantaggi nel nuovo contesto.
La lezione dell’epoca Netanyahu però è che anche lo status quo non è mai davvero statico. Proprio come gli assetti interni che hanno tenuto l’ex premier al potere si sono sfaldati, oggi stanno emergendo opportunità più ampie. L’eredità più tossica di Netanyahu è quella di aver fatto credere a tutti che una realtà alternativa non sarebbe mai potuta esistere. La sua caduta dovrebbe servirci a ricordare che un’alternativa c’è sempre. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati