La storia del cinema è piena di stranezze. Tra le cose più improbabili date in pasto a un pubblico distratto ci sono le imitazioni dei blockbuster. Con mezzi molto ridotti, i cosiddetti mockbuster cercano di guadagnare sfruttando la fama delle grandi produzioni di Hollywood. Basta un piccolo investimento per imitare una saga cinematografica di successo e lanciarla sul mercato con un nome il più vicino possibile all’originale: Corsari dei Caraibi invece di Pirati dei Caraibi, Atlantic rim invece di Pacific rim, Little cars al posto di Cars e via di seguito. Più l’operazione è sfacciata, meglio è: qualcuno prima o poi ci cascherà. Ma chi guarda roba del genere? E davvero è possibile farci dei soldi?
Già negli anni novanta, ogni volta che usciva al cinema un film della Disney, puntualmente apparivano nei pressi delle casse dei supermercati delle strane videocassette con in copertina protagonisti molto simili a quelli del film ufficiale.
Un’esca per gli sprovveduti
Non proprio uguali, però: Pocahontas e Aladdin sembravano disegnati a pennarello un po’ svogliatamente, il Re leone era stato promosso a Re degli animali e Bambi era ribattezzato Goldie. Personaggi e temi erano gli stessi, ma l’esecuzione quantomeno discutibile. Questi film contraffatti erano brevi, confusi, pieni di errori logici e non avevano nulla della magia dei sontuosi film del cinema. I bambini riconoscevano subito i falsi, al massimo erano i loro nonni o altri adulti del tutto ignoranti in fatto di film Disney a cadere nel tranello. Dietro quelle assurde imitazioni c’era spesso una società di produzione tedesca, la Dingo Pictures, che per vendere le sue opere si era specializzata in canali di distribuzione insoliti, come le prime console per i videogiochi. La Dingo Pictures ha ancora un sito internet, ma non produce più film.
Dopotutto da tempo non si vedono più videocassette alle casse dei supermercati e oggi tutte le console offrono servizi di streaming. A essere spudoratamente copiati ormai non sono i vecchi cartoni animati, ma i film d’animazione della Pixar e quelli dei supereroi della Marvel. E quindi Ratatoing al posto di Ratatouille, Metal Man invece di Iron Man. Questi film non circolano solo in oscure nicchie. Sul servizio di streaming Amazon Prime Video, accanto agli originali si possono trovare imitazioni di Indiana Jones, Tomb Raider o degli Avengers della Marvel, dvd e Blu-ray dei falsi sono venduti direttamente nei negozi.
Ma è davvero possibile comprare per sbaglio Metal Man al posto di Iron Man anche quando l’immagine di copertina è chiaramente taroccata? Una causa tra la Warner Bros e la società di produzione The Asylum, che nel suo catalogo tra le altre cose vanta Titanic 2, ha dato una risposta a questa domanda. Quel processo del 2012 non stabilì solo che il film Age of the hobbit dovesse cambiare nome, il che non era un problema dato che la storia non aveva nulla a che fare con Lo Hobbit o Il signore degli anelli. Tra le prove la Warner presentò dei sondaggi secondo cui il 30-40 per cento degli spettatori avrebbe finito per confondersi davanti a titoli così somiglianti. Solo la metà degli intervistati associava il termine hobbit a Tolkien.
Quindi risparmiare sulle campagne pubblicitarie con titoli e immagini che scimmiottano gli originali, sperando in spettatori un po’ distratti o superficiali, non è un cattivo modello di business, soprattutto se i costi sono inferiori a un milione di dollari o addirittura limitati a poche decine di migliaia di dollari. Con l’enorme numero di spettatori dei grandi blockbuster basta abbindolare una piccola percentuale del pubblico. È una frode palese? I realizzatori di questi film, ovviamente, pensano di no. The Asylum affermava che il mockbuster dello hobbit non era affatto una copia. Il film parla della specie ominide indonesiana estinta Homo floresiensis, che gli scienziati hanno soprannominato hobbit. Sembra quasi una sceneggiatura scritta direttamente dagli avvocati.
Anche quella causa fu persa da The Asylum, ma in altri casi i grandi studi nemmeno sporgono denuncia per non dare troppa visibilità alle imitazioni.
Perle trash
Altri registi di mockbuster cercano di giustificare le loro opere con la critica sociale. Di recente il quotidiano britannico The Guardian ha raccontato come i dipendenti dello studio brasiliano Vídeo Brinquedo si siano specializzati nelle copie dei film Pixar. Per molti lavoratori del settore sarebbe l’unico modo per entrare in attività e fare soldi con il cinema. Inoltre i film non realizzati negli Stati Uniti offrirebbero una maggiore diversificazione e sarebbero più accessibili a un pubblico senza molte risorse. Ma sono tutte argomentazioni da verificare, perché spesso, per gli spettatori, le copie non sono davvero più economiche degli originali, e non è affatto scontato che qualcuno con Ratatoing nel curriculum possa avere davvero qualche possibilità a Hollywood.
Intanto i mockbuster hanno trovato un nuovo pubblico su YouTube. Lì alcuni titoli hanno una seconda vita e rimbalzano nel canale come curiosità di pessimo gusto. C’è un intero genere di video che con pathos e dedizione elencano ogni errore e ogni leggerezza di questi film spazzatura, raggiungendo così milioni di visualizzazioni. Alcuni sono lunghi quasi quanto le pellicole che prendono di mira.
Come dimostrano anche le visualizzazioni su YouTube, parte del piccolo ma stabile successo dei mockbuster è dovuto proprio all’esistenza di un pubblico che guarda questi film solo perché sono incredibilmente spudorati e fatti male. Nel canale tv tedesco Tele 5 c’è addirittura un’intera trasmissione dedicata ai “peggiori film di tutti i tempi”, che celebra queste e altre opere. E il programma è a sua volta celebrato sui social network. I film spazzatura sono diventati così il motore di un intero settore.
Il gusto per il trash è un fattore di successo decisivo per i mockbuster che, a dispetto di tutti i loro difetti, riescono a far vivere grandi emozioni al loro pubblico. Sono le emozioni che Hollywood trascura: indignazione, rabbia, orrore, sbalordimento, piacere per il fallimento degli altri. Ma sono anche quelle che funzionano meglio sui social network. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati