L’incipit e il primo capitolo di La luce inversa sono respingenti: si viene catapultati in un esperimento di psicanalisi dal sapore distopico, in cui la scrittura fagocita la storia e anche questa viene spezzettata, frammentata e disseminata nel vuoto. Poi la narrazione apre porte, interiori e concrete, e questo esordio diventa difficile da leggere per altri motivi. Sadiq, Martin e Vanessa hanno subìto abusi durante l’infanzia, e le loro tre voci – distinte, caratterizzate – si alternano nel racconto. La luce inversa è una forma di terapia sviluppata dalla dottoressa Hollis, in grado di mettere in dialogo il paziente con il trauma originario per eliminarne ogni traccia e creare così un corpo nuovo, liscio, “oleoso, da poco inventato”. Quelle di Sadiq, Martin e Vanessa, la cui infanzia è stata mutilata da un sacerdote, dal nonno paterno e dal compagno della madre, sono coscienze senza corpi, che nella camera della luce inversa mettono in dialogo passato e presente, in un dolore che da individuale si fa collettivo, in un io senza soglie. L’intera narrazione è una regressione al pensiero, anzi, di più, alla coscienza, un perimetro svuotato di gesti, corpi e tempo, perfino di parole. Eppure il lessico di Mota è chirurgico, tagliente esso stesso, fastidioso: _La luce inversa _è un libro che si posa e si riprende a più riprese. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1614 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati