In un bar del parco pubblico di Al Dahra, nel centro di Tripoli, i tre uomini passano inosservati tra i clienti seduti al sole. Perfino la giacca militare di Khaled non si nota troppo in un paese dove dal 2011 il color kaki va molto di moda. È lui il primo a ricevere la notizia sul telefono: “Ha colpito il palazzo dei passaporti a Salaheddin (un quartiere a 14 chilometri dal centro). C’è stato un morto”.

La notizia non sorprende più di tanto i tre miliziani in licenza, nonostante domenica 12 gennaio sia cominciato ufficialmente il cessate il fuoco in Libia. “Non rispettano nessuna regola”, si arrabbia Mohamed, che si occupa della logistica nella sua unità di combattimento. “Bombardano gli edifici civili. Usano i mercenari russi e i janjaweed”, dice riferendosi ai miliziani sudanesi coinvolti nei massacri in Darfur.

La sera prima i tre erano sulla linea del fronte per impedire all’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) guidato dal generale Khalifa Haftar, di prendere il controllo di Tripoli. Combattono per il governo di accordo nazionale (Gna) del primo ministro Fayez al Sarraj nel quadro dell’operazione Vulcano di rabbia, che ha riunito milizie provenienti da varie città dell’ovest del paese, ognuna delle quali gestisce un fronte. La zona sud, dove si trova Salaheddin, è difesa dai potenti gruppi armati della città di Misurata. Il fronte occidentale è tenuto in gran parte da combattenti di Zintan.

La notizia della violazione della tregua fa poco scalpore ed è eclissata rapidamente da quella dell’incontro del 13 gennaio a Mosca tra Haftar e Al Sarraj. Nove mesi dopo l’inizio dell’offensiva di Haftar sulla capitale libica, lanciata il 4 aprile 2019, le linee del fronte si sono spostate poco. O almeno è quello che sappiamo, perché da settimane è vietato l’accesso ai giornalisti. “È una questione di sicurezza”, spiega Khaled. “Ho combattuto contro i sostenitori di Muammar Gheddafi nel 2011 e contro il gruppo Stato islamico nel 2016, ed era tutto più facile. Oggi restiamo dieci ore in prima linea, poi torniamo nelle retrovie perché i combattimenti sono molto intensi. I russi dell’azienda privata Wagner sono dei cecchini esperti, e contro i loro aerei e i droni c’è poco da fare. Perfino la Francia ha dato dei missili ad Haftar”. Nel luglio del 2019 alcuni missili Javelin di proprietà francese erano stati trovati in una base dell’Enl.

Quella raccontata da Khaled è la motivazione ufficiale. Dietro le quinte, le autorità di Tripoli non sembrano particolarmente propense a lasciare che osservatori esterni confermino o smentiscano la presenza e il numero di rinforzi giunti a difendere Tripoli, come previsto anche dall’accordo tra la Turchia e il Gna firmato alla fine di novembre del 2019. La presenza di russi e sudanesi è stata invece accertata.

Una proposta per Putin

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, più di mille combattenti siriani, provenienti dall’Esercito siriano libero, sarebbero stati mandati in Libia dalla Turchia in cambio della cittadinanza. I tre libici smentiscono con forza. “Dall’inizio dell’anno a coordinare la strategia militare ci sono dei comandanti turchi. Si sente la differenza: ora la strategia è più prudente, siamo disposti ad arretrare di due o tre chilometri, per poi riconquistare terreno quando la visibilità è scarsa per i cecchini e i velivoli di Haftar. In questo periodo perdiamo uno o due uomini al giorno. Prima anche dieci”, osserva Mohamed.

La vita quotidiana degli abitanti di Tripoli è lontana dalle considerazioni militari e strategiche. Perfino l’incontro tra Haftar e Al Sarraj non è considerato decisivo. Gli assedianti non sono mai riusciti a tagliare le linee di approvvigionamento marittime e terrestri della capitale, e in centro la vita delle persone non è cambiata sostanzialmente. Prima di andare all’università Mohamed e i suoi amici fanno la loro solita partita a carte in un bar di piazza Algeria: “Non posso pensare di lasciare Tripoli. Le zone di guerra ci sembrano lontane. Ecco perché vengo qui tutti i giorni”.

Il proprietario del bar ha una proposta per Putin e altri leader stranieri: “Dovrebbero obbligarli a combattere nel deserto. La Libia è abbastanza grande per tenerli lontano da Tripoli. Chi se ne frega se si ammazzano tra di loro”. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati