È impossibile non rendersi conto che in Russia è avvenuta una grande svolta politica. Un regime che per vent’anni ha cercato di incarnare una sorta di “autoritarismo ibrido” sembra ormai aver deciso di tornare alla versione tradizionale. Avevo definito il putinismo un “autoritarismo postmoderno”, perché non si basava tanto sulla paura e sulla forza quanto sul controllo della narrazione. Un parlamento per tre quarti fasullo pieno di comparse appartenenti a partiti per tre quarti fasulli, che sembravano fatti per essere il meno attraenti possibile, garantiva una parvenza fittizia di democrazia. Eppure, alla base c’era ancora spazio per una fiorente società civile, a patto che si occupasse di questioni locali e specifiche, e addirittura per mezzi d’informazione vivaci e critici.
In generale, nonostante la polizia antiterrorismo (Omon), i servizi segreti federali (Fsb) e il Comitato investigativo fossero sempre pronti a reprimere e punire, il regime si limitava a comprare il sostegno della popolazione quando poteva e a cercare di convincerla che le alternative non esistevano o erano peggiori. Secondo Machiavelli se un principe non può essere allo stesso tempo amato e temuto, è meglio per lui essere temuto. Il leader autoritario postmoderno, però, sa che l’amore può essere volubile e la paura distruttiva, e che l’apatia è meglio di entrambe le cose.
Per vent’anni questa formula ha funzionato: un tenore di vita abbastanza elevato da tenere buone le masse; opportunità di arricchimento extraprofessionale sufficienti per ingraziarsi le élite; un certo margine di manovra per chi voleva impegnarsi nell’attivismo locale; repressione quanto basta per mettere a tacere o intimidire i riottosi; ma soprattutto nessuna speranza che le cose potessero cambiare se non in peggio, per convincere tutti ad accontentarsi di quello che avevano.
Questo modello era in crisi da anni e sono stati fatti vari tentativi di adattarlo, dai Progetti nazionali per affrontare i problemi della qualità della vita, alla creazione della Guardia nazionale per incrementare la forza deterrente dello stato. Eppure c’era la sensazione, nell’opposizione come nella classe dirigente, che la gestione della situazione si stesse facendo meno abile e sicura. Il regime però aveva ancora saldamente il controllo. Non c’era un’opposizione significativa, le élite erano soddisfatte o temevano di perdere ciò che avevano, e le risorse dello stato (dalle riserve finanziarie alla capacità coercitiva) erano abbondanti. Tutto questo rende ancora più difficile spiegare l’apparente decisione di gettare la maschera e affidarsi a misure più apertamente repressive.
Presumibilmente, la scelta di avvelenare Aleksej Navalnyj nell’agosto del 2020 è nata non solo dalla convinzione che lui e il suo movimento fossero pericolosi – che sarebbe di per sé una sorprendente ammissione d’insicurezza da parte del Cremlino – ma anche che Navalnyj stesse contribuendo, in modo consapevole o meno, a una campagna occidentale di sovversione contro la Russia.
La crisi in Bielorussia potrebbe aver convinto Putin che un po’ di repressione subito avrebbe evitato il ricorso a molta repressione in seguito X
Una volta che imbocchi certe strade è difficile tornare indietro. Quando Navalnyj è sopravvissuto ed è rientrato provocatoriamente in Russia, il regime ha chiaramente concluso che per non apparire debole non aveva altra scelta se non incarcerarlo. E quando il suo movimento ha cominciato a organizzare manifestazioni di massa, che si sono allargate oltre il solito contesto metropolitano e hanno raggiunto i piccoli centri in tutto il paese, è diventato difficile resistere alla tentazione di ampliare la repressione.
Quando è troppo è troppo
È stato un punto di svolta. Da un po’ di tempo era chiaro che ci fosse una certa concordanza d’opinioni tra i principali esponenti dell’apparato di sicurezza (siloviki) – il segretario del Consiglio di sicurezza Nikolai Patrušev, il direttore dell’Fsb Aleksandr Bortnikov, il capo del Comitato investigativo Aleksandr Bastrykin e il comandante della Guardia nazionale Viktor Zolotov – che sono spesso in competizione tra loro, ma erano tutti d’accordo che quando è troppo è troppo.
Ma cosa ha convinto Putin, un presidente da sempre incline alla prudenza? Dall’esterno è impossibile dirlo. Forse si è fatto convincere dalle teorie complottiste su una campagna sovversiva di gibridnaya voina (guerra ibrida) ordita dall’occidente, che dopo aver rovesciato Viktor Janukovyč in Ucraina e messo alle corde Aleksandr Lukašenko in Bielorussia stava per rivolgersi contro di lui. In effetti la crisi in Bielorussia, innescata da un’elezione truccata in modo particolarmente plateale, potrebbe aver avuto un ruolo decisivo nel convincere Putin che un po’ di repressione subito avrebbe evitato di dover ricorrere a molta repressione in seguito, soprattutto se il piano di “voto intelligente” di Navalnyj, che prevede di sostenere di volta in volta il candidato d’opposizione con più probabilità di battere quello del Cremlino, si fosse rivelato efficace. In ogni caso, la decisione è stata presa.
Questa decisione impone la sua logica. Anche se era impossibile sbarazzarsi definitivamente di Navalnyj a causa del rischio di turbolenze interne e di una risposta internazionale, si poteva metterlo sotto chiave per il tempo necessario a smantellare il movimento che gli aveva permesso di rappresentare una minaccia politica diretta. Per mesi le sedi locali e gli attivisti sono stati presi di mira, e ora, con l’imminente decisione di designare come “estremiste” le sue organizzazioni, potrà essere lanciata una campagna totale. L’obiettivo è fare di Navalnyj un generale senza esercito. Questo potrebbe spiegare la risposta piuttosto moderata alle ultime manifestazioni. Di solito la violenza e gli arresti indiscriminati sono uno strumento per scoraggiare la partecipazione a proteste successive. Perché scomodarsi se ci si aspetta che non ce ne saranno più per un bel po’, e che presto la gente avrà motivi molto più convincenti per non esprimere apertamente la propria opposizione?
E così la repressione si è ampliata ancora. I mezzi d’informazione indipendenti danno fastidio? Basta designare come “agente straniero” il sito Meduza, che ha sede in Lettonia, soffocare le sue fonti di finanziamento e perseguire le piattaforme di giornalismo investigativo come iStories. Gli avvocati dell’associazione Team 29 ostacolano i casi dell’Fsb? È ora di prenderli di mira, intimidendoli se possibile, altrimenti arrestandoli. I social network offrono agli oppositori la possibilità di pubblicare video e resoconti dei tuoi abusi e di coordinare le proteste? Perché non fare pressione su Twitter e altre piattaforme per indurli all’autocensura, come è riuscito alla Cina? Tutto questo potrebbe essere definito post-postautoritarismo, o forse è puro e semplice autoritarismo.
Figli di Andropov
Ovviamente c’è chi esagera. Fare paragoni con il “grande terrore” staliniano significa minimizzare gli orrori di quell’epoca e fraintendere la repressione attuale. Non siamo ancora al totalitarismo, con la sua volontà disperata e dispotica di controllare non solo quello che la gente fa, ma anche quello che pensa. Inoltre c’è ancora un po’ di raffinatezza e senso della misura (dopotutto la generazione dei siloviki di Putin è figlia di Jurij Andropov, il freddo e cerebrale direttore del Kgb che tra il 1967 e il 1982 introdusse un nuovo stile di repressione basato sul principio del massimo risultato con il minimo sforzo: i ricoveri psichiatrici, l’emigrazione forzata e le “chiacchierate profilattiche” sostituirono in gran parte le azioni di massa). Ma è comunque repressione e autoritarismo, e anche se viene imposto per evitare una guerra aperta contro la popolazione come quella osservata in Bielorussia, rappresenta una pietra miliare nella decadenza politica e nel degrado intellettuale del putinismo.
È possibile che prima delle elezioni di settembre, o più probabilmente dopo, se non addirittura in occasione della campagna per le presidenziali del 2024, Putin faccia un passo indietro. I procuratori potrebbero essere rimproverati per il loro “eccesso di zelo”, alcuni prigionieri potrebbero essere rilasciati e potrebbero essere offerte scuse simboliche e promesse di un nuovo inizio. Ma questo non è un cammino percorribile a ritroso. La portata della repressione potrà essere modulata a seconda delle necessità e delle paure contingenti del Cremlino, ma sarà impossibile ricostruire la delicata legittimità che l’“autoritarismo postmoderno” aveva permesso. Ora Putin siede su un trono di baionette e manganelli, e non potrà più lasciarlo. ◆ as
**Mark Galeotti **è un analista britannico esperto di Russia. Ha scritto _We need to talk about Putin _(Ebury 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1408 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati