G iulio Regeni, uno studente italiano di 28 anni, si era trasferito al Cairo nel settembre del 2015. Doveva fare delle ricerche sui sindacati indipendenti egiziani per una tesi di dottorato all’università di Cambridge. Alcuni mesi dopo è stato trovato morto ai bordi di un’autostrada, con il corpo coperto di bruciature di sigarette, i denti rotti e le ossa fratturate. Il 10 dicembre 2020 la procura di Roma ha chiuso le indagini sulla morte del ricercatore italiano e ha chiesto che siano processati quattro agenti delle forze di sicurezza egiziane per sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio.
La vicenda è fonte di grave imbarazzo per il governo del presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi. È la prima indagine giudiziaria completa sul presunto uso della detenzione segreta da parte dei servizi di sicurezza egiziani, un abuso del quale, secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, sono state vittime migliaia di egiziani. In Egitto la polizia e i servizi segreti vengono raramente condannati per la tortura e la morte delle persone che hanno in custodia, e si crea così quello che le ong definiscono un clima d’impunità. “Si potrà indagare su una macchina che produce sparizioni e torture. Non hanno inventato una nuova organizzazione per Giulio. Hanno usato gli strumenti e le pratiche sperimentate su molti egiziani”, ha dichiarato Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, una ong che si occupa di diritti umani e rappresenta la famiglia Regeni in Egitto.
Telecamera nascosta
Dalle testimonianze oculari, dai tabulati telefonici e da altre prove emerge una storia di tradimenti, inganni e brutalità, che apre uno squarcio sul funzionamento dell’apparato repressivo egiziano. Questa ricostruzione della morte di Regeni si basa su deposizioni, dichiarazioni dei pubblici ministeri e atti giudiziari.
Poco dopo essere arrivato al Cairo, Regeni attirò l’attenzione dei servizi di sicurezza egiziani. Le autorità sorvegliavano i sindacati indipendenti, una delle forze propulsive delle proteste che nel 2011 avevano portato al rovesciamento del presidente egiziano Hosni Mubarak. Il leader dei venditori di strada Mohammed Abdullah, uno dei principali soggetti della ricerca di Regeni, aveva segnalato ai servizi segreti il giovane italiano.
Abdullah riferiva regolarmente al maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, il suo contatto presso l’Nsa, la temuta agenzia per la sicurezza nazionale egiziana. Gli inquirenti italiani sono convinti che Sharif sia stato il capo dell’operazione contro Regeni.
Secondo la loro ricostruzione, l’Nsa sospettava che Regeni stesse cercando di alimentare la protesta attraverso i sindacati, soprattutto quando Abdullah informò l’agenzia che l’italiano si era offerto di aiutare il sindacato a fare domanda per una borsa di diecimila sterline (undicimila euro) finanziata da un’ong britannica.
Il 7 gennaio 2016 Abdullah filmò con una telecamera nascosta Regeni che parlava di una possibile domanda per la borsa. In seguito il filmato è stato diffuso sulla tv di stato egiziana e considerato una prova delle attività sovversive del ricercatore.
Le autorità egiziane hanno offerto versioni contrastanti di quello che è successo
“Crediamo che questa sia stata la causa scatenante”, ha dichiarato Sergio Colaiocco, il pubblico ministero italiano che ha guidato le indagini. “Pensavano che volesse finanziare una rivoluzione”.
Secondo i magistrati italiani, i servizi di sicurezza egiziani avevano assoldato altre due persone perché riferissero su Regeni: l’avvocato Mohammed el Sayed, suo coinquilino, e un amico egiziano dell’università di Cambridge. Non è stato possibile raggiungere per una dichiarazione né Abdullah né El Sayed.
Regeni è scomparso il 25 gennaio 2016, nell’anniversario della rivolta popolare del 2011. Le strade del Cairo brulicavano di forze di sicurezza e in giro c’erano pochi civili. Quella sera Regeni aveva deciso d’incontrare, vicino a piazza Tahrir, un amico italiano con cui sarebbe dovuto andare a trovare un professore egiziano che compiva gli anni. Alle ore 19.41 Regeni inviò un messaggio su Facebook alla sua ragazza in Ucraina: “Vado a trovare il professore con Gennaro. Spero che lo yoga stia andando bene. Fammi sapere quando arrivi a casa :)”. È stata l’ultima volta che una persona vicina a Regeni ha avuto sue notizie.
Appena prima delle otto di sera fu sequestrato mentre era nella stazione della metropolitana e portato in un commissariato. Fu bendato e condotto in auto negli uffici dell’Nsa, che si trovano nella sede del ministero dell’interno egiziano.
Nella stanza numero 13, riservata agli interrogatori dei cittadini stranieri, fu torturato per giorni, secondo la testimonianza rilasciata agli inquirenti italiani da un uomo che ha lavorato per quindici anni all’Nsa. “Nella stanza c’erano catene per legare le persone. La parte superiore del corpo di Regeni era scoperta e c’erano segni di tortura. Parlava nella sua lingua, delirava. Era molto magro, giaceva in terra ammanettato”, riporta la trascrizione della sua testimonianza.
L’ambasciata italiana fu informata della scomparsa di Regeni nelle ore successive alla sparizione. Cinque giorni dopo i suoi genitori andarono al Cairo in un tentativo disperato di trovarlo. All’epoca il ricercatore era ancora vivo. Il governo egiziano non fece alcun commento ufficiale sulla scomparsa. L’Nsa negò che le forze di sicurezza egiziane fossero coinvolte in qualche modo nella scomparsa di Regeni, affermano i funzionari italiani.
Il testimone dell’Nsa ha dichiarato che Regeni morì mentre era nelle mani dell’agenzia per un colpo violento alla nuca nelle ventiquattro ore precedenti o successive alla sera del 1 febbraio, come confermato dall’autopsia fatta in Italia. Il suo corpo fu trovato il 3 febbraio, dietro un muro ai bordi di un’autostrada polverosa nei sobborghi del Cairo.
Nei mesi seguenti le autorità egiziane offrirono varie versioni sulla morte del ricercatore, dichiarando ai funzionari italiani che forse era morto in un incidente d’auto o dopo un festino a sfondo sessuale. A marzo del 2016 il ministro dell’interni egiziano dichiarò che durante una sparatoria le forze di sicurezza avevano ucciso cinque uomini che facevano parte di una banda criminale e che gli avevano trovato addosso il passaporto e i telefoni di Regeni. I funzionari italiani, la famiglia della vittima e le associazioni di difesa dei diritti umani respinsero questa versione, giudicandola un tentativo di coprire l’omicidio. Anche i magistrati egiziani all’inizio avevano detto che la banda non era legata alla morte di Regeni. Ma ultimamente hanno cambiato idea, accusando il gruppo criminale. In Egitto nessuno è stato incriminato per l’omicidio di Regeni. Inizialmente i magistrati egiziani avevano condiviso alcune prove con gli inquirenti italiani, come i tabulati telefonici e le testimonianze scritte. Secondo le autorità italiane, però, non le prove fondamentali, come le riprese delle telecamere di sorveglianza fatte vicino alla stazione della metropolitana al momento della scomparsa di Regeni. Inoltre le autorità egiziane si sono rifiutate di condividere informazioni su altri tredici potenziali sospetti. E alla fine del 2018 hanno interrotto ogni collaborazione.
Prove importanti
Gli inquirenti italiani sono riusciti a raccogliere prove importanti, tra cui le deposizioni di cinque testimoni chiave. Non hanno spiegato come e dove hanno raggiunto questi testimoni. Tra le persone di cui si chiede il processo c’è il maggiore Magdi Sharif, dell’Nsa. Secondo un testimone, Sharif si sarebbe vantato dell’operazione contro Regeni in una conversazione con un collega keniano, dicendo che “l’italiano forse era in contatto con la Cia o con il Mossad. Il maggiore”, ha riferito il testimone, “disse che avevano sentito da alcune intercettazioni che Regeni progettava di andare a una festa vicino a piazza Tahrir e lo hanno fermato prima”. Sempre secondo il testimone, Sharif avrebbe dichiarato di aver colpito personalmente Regeni.
La persona di grado più elevato accusata di coinvolgimento nell’omicidio è il generale dell’Nsa Sabir Tariq, che ha ancora un ruolo centrale nella repressione di stato in Egitto, secondo persone al corrente dei fatti. Sabir non ha risposto alla richiesta di un commento. Probabilmente i quattro funzionari egiziani saranno processati in assenza a Roma a primavera. Se saranno giudicati colpevoli, l’Italia potrebbe richiedere la loro estradizione. Ma difficilmente l’Egitto la concederà.
“Abbiamo promesso di fare tutto il possibile per accertare cosa sia accaduto. Lo dobbiamo a Giulio Regeni”, ha dichiarato Michele Prestipino, capo della procura di Roma. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati