Alla maggioranza dei tedeschi piace l’idea di lavorare un giorno in meno alla settimana, senza rinunciare alla corrispondente quota di stipendio. È il poco sorprendente risultato di un sondaggio che ha vagliato gli umori rispetto alla proposta presentata dall’Ig Metall, il sindacato tedesco dei metalmeccanici. È come chiedere ai proprietari di suv se gli piacerebbe parcheggiare liberamente sulle piste ciclabili, forse la percentuale dei favorevoli sarebbe la stessa. L’idea di una settimana lavorativa di quattro giorni “con un certo conguaglio salariale per i dipendenti” – questa la formulazione esatta – è seducente. Ma solo a un primo sguardo: a un secondo è poco meditata e a un terzo economicamente insostenibile.

La proposta ricorda un po’ il Kurzarbeit (letteralmente “lavoro breve”, la riduzione dell’orario di lavoro finanziata dallo stato tedesco per evitare licenziamenti), ma a carico delle aziende private. La settimana di lavoro di quattro giorni è stata introdotta nel dibattito anche come arma per combattere la crisi attuale. La tempistica è perfetta: milioni di persone hanno appena sperimentato il lavoro ridotto. Con la perdita di appalti e commesse le aziende hanno lavorato di meno, ma allo stesso tempo non hanno potuto licenziare nessuno. Se si considera inoltre che lo stato ha generosamente aumentato salari e stipendi, i lavoratori dipendenti si sono ritrovati con più tempo libero e senza alcun problema finanziario. Una classica situazione win-win, piacevole da vivere, senza costi personali e con vantaggi per tutti. In altre parole, da ripetere.

Un vecchio mondo

Ma è il caso di fare qualche distinzione, soprattutto sul piano finanziario. Innanzitutto è sorprendente che uno strumento vecchio di cento anni sia riscoperto proprio ora. È vero che da allora la produttività è cresciuta, insieme agli standard di vita, e che – in tempi buoni – si può perfino aspirare a lavorare di meno. Ma perché parlare di giorni e non di ore? L’espressione “settimana lavorativa di quattro giorni” tradisce quanto i sostenitori di quest’idea siano attaccati alle categorie di un vecchio mondo del lavoro, in cui parole come orario flessibile o smart working non trovano posto. Per i lavoratori che hanno bambini piccoli, però, non è una semplice distinzione semantica. Lo dimostra un esempio banale: con un orario ridotto o più flessibile, potrebbero serenamente andare a prendere ogni giorno i figli all’asilo. Con una settimana lavorativa di quattro giorni, invece, dal lunedì al giovedì a fatica riuscirebbero a vedere i figli dopo la chiusura dell’ufficio, proprio come ora, mentre il venerdì se ne starebbero a poltrire a casa tutto il giorno.

Da sapere
Il tempo necessario
Ore di lavoro settimanale medie nel 2018, paesi selezionati (Fonte: Statista)

E comunque, l’ipotesi crolla sul piano dei costi. Cosa significa esattamente un “certo” conguaglio salariale? Tre per cento, 50 per cento, 100 per cento? Davanti a questa domanda, i sostenitori della proposta tacciono. Lo fanno per un buon motivo: perché la verità sarebbe spiacevole e costringerebbe a fare i conti. Una settimana lavorativa corta senza indennità sarebbe poco attrattiva per tutti i lavoratori stipendiati, mentre la riduzione del lavoro a quattro giorni a parità di stipendio equivarrebbe a un aumento. E chi lo paga?

Nel normale Kurzarbeit è lo stato a metterci la differenza. Per trovare i fondi può liberamente alzare le tasse, indebitarsi o fare entrambe le cose. Un’azienda privata per avere quei soldi deve fatturare. Se non ci riesce – magari a causa di un calo della domanda dovuto a una pandemia – la misura può diventare un problema. Un prestito è da escludere, perché nessuna banca e nessun obbligazionista darebbe soldi a un’impresa per questo motivo. Specialmente ora nel contesto della pandemia: da quando non c’è la possibilità di dichiarare fallimento, è difficile distinguere quali imprese rimaste in piedi siano in realtà degli zombie pronti a sgretolarsi non appena finirà lo stato d’emergenza.

C’è ovviamente anche un’altra faccia della medaglia, quella di chi con la crisi ci ha guadagnato. Il mercato dell’edilizia e i negozi di biciclette, per esempio. I loro affari vanno bene, forse avrebbero abbastanza soldi per accorciare la settimana lavorativa a giovedì. Ma ora hanno anche molto da fare e non potrebbero permettersi di mandare i loro dipendenti a casa un giorno alla settimana.

C’è sempre qualcosa che manca: i soldi o il tempo. Ripartire il lavoro in modo alternativo, durante un’emergenza, è sicuramente meglio che licenziare alcuni e spremere altri fino all’esaurimento. Ma la questione del pagamento non può essere sviata. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati