Riprogrammando le cellule della pelle alcuni ricercatori hanno coltivato dei modelli di embrioni umani, un’impresa che potrebbe inaugurare un nuovo modo di studiare le prime fasi della vita, approfondire la conoscenza di disturbi dello sviluppo, infertilità e malattie genetiche e, forse, migliorare le tecniche di fecondazione in vitro.

In uno studio pubblicato su Nature, il team coordinato da Jose Polo, dell’università di Monash, in Australia, ha scoperto che le cellule della pelle, sottoposte a un particolare trattamento, formano delle strutture tridimensionali che somigliano a embrioni umani. Un team sinoamericano, coordinato da Jun Wu, ha ottenuto risultati simili creando strutture che ricordano la fase embrionale iniziale nota come blastocisti.

Dal punto di vista scientifico è una conquista straordinaria, ma da quello etico la creazione di modelli dello sviluppo umano pone diversi problemi. Negli ultimi cinquant’anni la ricerca ha chiarito molti aspetti della formazione dei vari organi del corpo umano e di cosa succede nelle cellule durante le malattie. Molte di queste scoperte sono state rese possibili dagli sviluppi nel campo delle cellule staminali. Partendo dai tessuti umani, infatti, gli scienziati hanno creato modelli 3d in vitro, o organi in miniatura, che simulano la struttura e la funzione di quelli veri. I modelli, detti organoidi, hanno permesso di studiare la formazione dei reni, di capire cosa succede a un cervello in fase di sviluppo in presenza del virus zika e di sperimentare alcune terapie contro il cancro del colon-retto e del pancreas.

I progressi scientifici si basano sull’innata abilità delle cellule staminali di trasformarsi, nelle giuste condizioni, in determinate caratteristiche anatomiche e funzionali. I ricercatori usano quelle prelevate dal tessuto di un paziente per creare modelli 3d dell’organo da cui provengono. Molti organi, ma non tutti, hanno le proprie cellule staminali.

Altre tecniche si basano invece su cellule staminali dette pluripotenti, che si ottengono dagli embrioni umani o si creano in laboratorio riprogrammando una cellula della pelle o del sangue. Questo metodo permette di creare cellule staminali e di indurle a riprodurre un organo. I miniorgani in 3d, però, imitano solo alcuni aspetti della struttura e della funzione dell’organo.

Le cellule staminali possono darci molte informazioni su come si formano gli organi, ma la ricerca non ha ancora chiarito la complessa interazione tra lo sviluppo dell’embrione e l’endometrio necessario per il buon esito della gravidanza. Nelle prime settimane dopo l’impianto, infatti, è molto difficile accedere al materiale riproduttivo. Inoltre, anche nei paesi che permettono le ricerche sugli embrioni in sovrannumero donati dopo una procreazione assistita, queste sono solitamente limitate ai primi 14 giorni dopo la fecondazione, mentre i modelli animali svelano poco o nulla del processo dell’impianto dell’embrione umano. Con un aborto spontaneo ogni sei gravidanze e un’alta incidenza d’infertilità dovuta al mancato impianto degli embrioni, è importante capire perché si verificano questi problemi.

Le cellule staminali pluripotenti permettono di creare strutture che riproducono specifici aspetti dello sviluppo umano, ma non l’intero embrione al momento dell’impianto e subito dopo. Lo studio dell’università australiana offre nuove soluzioni per analizzare lo sviluppo umano a partire dall’impianto.

Stadio precedente

Con un processo che dura settimane i ricercatori del team di Polo hanno riprogrammato le cellule della pelle di donatori adulti, riportando lo sviluppo a uno stadio precedente e meno specializzato. Poi le hanno coltivate in cluster 3d per sei giorni, al termine dei quali alcune avevano formato strutture simili alle blastocisti, l’ultima fase dello sviluppo embrionale prima dell’impianto. Questi modelli sono stati chiamati “iBlastoidi”.

Il secondo team, quello di Jun Wu, ha coltivato linee cellulari staminali pluripotenti – sia embrionali sia create mediante riprogrammazione – con un procedimento in due fasi leggermente diverso che stimola la formazione dei cluster 3d, chiamando i suoi modelli “blastoidi”.

Per struttura e funzione tutti i modelli somigliano alle blastocisti, ma non è ancora chiaro quanto somiglino agli embrioni formati da ovuli e spermatozoi: hanno gli stessi pattern genetici e in coltura si comportano nello stesso modo, ma sono state rilevate anomalie significative come la crescita non sincronizzata e la presenza di cellule assenti negli embrioni.

Dal punto di vista etico, la difficoltà principale è decidere dove fissare il limite tra l’uso delle staminali per coltivare modelli di embrioni e la ricerca sugli embrioni umani creati per la procreazione assistita. Alcune persone non fanno distinzioni, ma per altre i modelli andrebbero usati solo per scopi ben precisi, come studiare l’origine dell’infertilità o delle malattie genetiche. Per questi ultimi il limite etico potrebbe essere ricorrere ai modelli per sperimentare le tecniche di editing genetico con cui correggere i disturbi, invece di limitarsi a studiarli.

Bisogna porsi tre domande. Quali sono i potenziali benefici? È possibile ottenere gli stessi risultati con altri metodi? Come garantire una supervisione efficace?

Anche se i modelli 3d non sono embrioni umani, la sorveglianza potrebbe basarsi sulle leggi già in vigore per gli embrioni sovrannumerari della fecondazione in vitro. Molti paesi hanno commissioni etiche che offrono consulenze ai ricercatori. Il tema è molto delicato e potrebbe suscitare preoccupazioni simili a quelle seguite agli studi sulla clonazione, venticinque anni fa. Oggi come allora una cosa è certa: le nuove tecniche andrebbero usate solo per la ricerca. Qualunque tentativo di fecondare donne o animali dovrebbe essere vietato.

Presto la Società internazionale per la ricerca sulle cellule staminali pubblicherà delle nuove linee guida per gli studi sui modelli di embrioni umani. Com’è avvenuto in passato per altri temi sensibili, è indispensabile tenere conto di tutti gli aspetti della questione. ◆ sdf

Megan Munsie è vicedirettrice del Centre for stem cell systems dell’università di Melbourne. Helen Abud dirige il dipartimento di anatomia e biologia dello sviluppo e il programma di ricerca sugli organoidi dell’università Monash, a Melbourne.

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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati