In questo periodo ci sono pochi argomenti su cui Boris Johnson ed Emmanuel Macron sono d’accordo. Uno è il cambiamento climatico. Il 12 dicembre, mentre facevano un ultimo, disperato tentativo per trovare un accordo sulla Brexit, i leader di Regno Unito e Francia hanno anche partecipato a un vertice sul clima in videoconferenza.

In un momento segnato dalle conseguenze della pandemia e dall’instabilità geopolitica, il vertice sarà probabilmente considerato un successo: negli ultimi mesi i leader di più di settanta paesi hanno preso nuovi impegni per affrontare la crisi climatica. All’evento del 12 dicembre ha partecipato anche il presidente cinese Xi Jinping, che qualche mese fa si era impegnato ad azzerare le emissioni nette del suo paese entro il 2060.

Sono passati cinque anni dalla conferenza sul clima di Parigi, che si concluse con un accordo idealistico: 189 paesi si promettevano di tenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei due gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, puntando all’obiettivo di 1,5 gradi. Per gran parte degli ultimi cinque anni è sembrato un risultato irraggiungibile, anche perché i governi non sono riusciti a trovare un’intesa su molte delle regole dell’accordo, mentre le emissioni a livello globale hanno continuato a crescere. Gli Stati Uniti, secondo paese al mondo per emissioni dopo la Cina, sono perfino usciti dall’accordo di Parigi. Nel frattempo il pianeta è diventato sempre più caldo. Le temperature degli ultimi sei anni sono state le più alte mai registrate. Gli incendi, gli uragani e le ondate di caldo sono più frequenti che in passato. Nel 2019 il segretario generale delle Nazioni Unite dichiarava che al ritmo attuale la temperatura globale sarebbe aumentata di almeno tre gradi entro la fine del secolo, un dato chiaramente incompatibile con gli obiettivi fissati a Parigi.

Ma di recente il tono del dibattito è cambiato, e di conseguenza anche le previsioni sul destino del pianeta. Durante il vertice del 12 dicembre c’è stata un’accelerazione sugli impegni presi dai singoli paesi e sugli obiettivi giuridicamente vincolanti. Uno sforzo che, secondo gli scienziati, ha contribuito ad abbassare la traiettoria del riscaldamento globale. Negli ultimi mesi la Cina, il Giappone e la Corea del Sud si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette entro metà secolo. È presumibile che nei prossimi mesi gli Stati Uniti annuncino degli obiettivi simili: durante la campagna elettorale per le presidenziali Joe Biden, che il 20 gennaio del 2021 prenderà il posto di Donald Trump, ha detto di voler azzerare la quota di elettricità generata dal carbone entro il 2035 e le emissioni nette entro il 2050. Quando Biden entrerà alla Casa Bianca, gran parte delle economie più avanzate del mondo, tra cui i paesi dell’Unione europea e il Regno Unito, avranno fissato delle scadenze per azzerare le emissioni nette. Se lo farà anche Washington, queste disposizioni riguarderanno il 63 per cento delle emissioni globali attuali.

Vento di cambiamento

Potrebbe essere un punto di svolta? Alcuni scienziati sono convinti di sì. “Se tutti i paesi rispetteranno le scadenze che si sono dati per l’azzeramento delle emissioni, gli obiettivi dell’accordo Parigi torneranno a essere raggiungibili”, spiega Niklas Höhne, docente di sistemi ambientali all’università olandese di Wageningen. Secondo gli studi condotti da Höhne e dai ricercatori delle organizzazioni non profit NewClimate institute e Climate analytics, i dati attuali suggeriscono che entro la fine del secolo l’aumento della temperatura globale potrebbe essere di 2,1 gradi, molto al di sotto delle previsioni fatte qualche anno fa. Perché questo succeda, tutti i paesi che si sono impegnati ad azzerare le emissioni (al momento più di 120) devono rispettare le scadenze che si sono dati; e, naturalmente, sarà fondamentale che anche gli Stati Uniti si diano questo obiettivo.

Se invece ci si limita a osservare le politiche attuali, ignorando le ambizioni future, il quadro diventa meno incoraggiante. La previsione di un aumento di 2,1 gradi è la più ottimistica che sia mai stata fatta dalle due organizzazioni, che dal 2009 fanno proiezioni sulle temperature in base alle promesse dei governi. Undici anni fa il loro modello, basato in gran parte sul protocollo di Kyoto del 1997, prevedeva un aumento della temperatura di 3,5 gradi. “Un momento decisivo è stato quando la Cina si è impegnata ad azzerare le emissioni nette, spingendo molti paesi a seguire l’esempio”, sottolinea Höhne. “Credo che sia l’effetto più importante generato dall’accordo di Parigi”.

Dopo il passaggio dell’uragano Iota a Puerto Cabezas, in Nicaragua, il 17 novembre 2020 (Afp/Getty)

Altri esperti condividono la sua opinione. “In questa fase un aumento della temperatura globale non superiore ai due gradi sembra un obiettivo raggiungibile, mentre in passato molti di noi erano piuttosto cinici sulla possibilità di realizzarlo”, spiega Chris Rapley, professore di scienze climatiche dell’University college di Londra. La pandemia di covid-19 ha contribuito ad accelerare le cose. Nel 2020 le emissioni globali sono diminuite del 6,7 per cento, la maggiore riduzione mai registrata in tempo di pace. Naturalmente potrebbe essere un fenomeno temporaneo (gli esperti prevedono un forte aumento delle emissioni nel prossimo futuro), ma resta il fatto che i programmi per la ripresa economica metteranno a disposizione centinaia di miliardi di dollari per i progetti a basso impatto ambientale.

Ma la pandemia ha avuto anche effetti meno positivi. Per esempio, ha costretto a rinviare al 2021 il vertice sul clima che si sarebbe dovuto tenere a novembre a Glas­gow (Cop26). Con i governi di tutto il mondo alle prese con l’emergenza sanitaria, la crisi climatica è finita in secondo piano. È diminuita anche la pressione dell’opinione pubblica sui governi per trovare una soluzione al problema. Milioni di giovani ambientalisti, che nel 2019 erano scesi in piazza seguendo l’esempio dell’attivista svedese Greta Thunberg, sono dovuti restare in casa a causa dei lockdown. Le proteste online sono meno visibili, anche se non meno appassionate.

In ogni caso, il taglio delle emissioni non dipende solo dai governi. I grandi passi avanti in campo tecnologico e l’impegno delle multinazionali hanno contribuito a generare un vento che soffia nelle vele dell’accordo di Parigi. Al vertice del 12 dicembre hanno partecipato molti amministratori delegati, tra cui Tim Cook della Apple, che ha sottolineato la volontà delle grandi aziende di ridurre le emissioni.

Adair Turner, presidente del centro studi Energy transitions commission, è convinto che si sia messo in moto un circolo virtuoso in cui tecnologia, aziende e governi si spingono a vicenda nella giusta direzione. “Questo mostra la forza del processo di Parigi. Molti fanno notare che l’accordo non è vincolante dal punto di vista giuridico. In effetti è un impegno politico a prendere parte a una sorta di processo comparativo: ‘Se io faccio questo, allora tu fai quello’. Ma sta funzionando, anche grazie al processo tecnologico”, spiega Turner.

Anni difficili

Cinque anni fa, alla firma dell’accordo di Parigi, il successo dell’iniziativa era tutt’altro che scontato. Basato sulla fiducia reciproca e senza nessun meccanismo coercitivo o punitivo, il patto permetteva a ogni paese di fissare in modo autonomo gli obiettivi da raggiungere, conosciuti come “contributi determinati a livello nazionale”. L’obiettivo di contenere il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi sembrava particolarmente difficile e costoso, anche alle persone che lo sostenevano.

Realizzare le proposte di Parigi è “fattibile, ma solo con la consapevolezza che la crisi climatica è grave e somiglia a una guerra”, ha detto nel 2019 John Kerry, ex segretario di stato americano e inviato speciale per il clima della prossima amministrazione Biden. In questi cinque anni, le emissioni globali hanno raggiunto livelli da record. Nel 2017 Donald Trump ha annunciato l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo, e sono arrivati messaggi poco incoraggianti dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro e dal primo ministro australiano Scott Morrison, anche se nessuno dei due ha seguito l’esempio di Trump. Fino a poco tempo fa la Cina non aveva ancora fissato un obiettivo per la riduzione delle emissioni, limitandosi a dichiarare che il picco sarebbe stato raggiunto prima del 2030.

In quel momento sembrava che gli ideali cooperativi su cui si basava l’accordo di Parigi fossero scomparsi. “È come se li avessimo persi per quattro anni”, conferma Rémy Rioux, uno dei principali negoziatori francesi coinvolti nelle trattative e attualmente a capo dell’Agenzia francese per lo sviluppo. “Negli ultimi cinque anni abbiamo vissuto come se facessimo parte di una sorta di ‘resistenza’”. Rioux racconta la “battaglia” per tenere viva l’ambizione dell’accordo sul clima davanti all’opposizione di paesi come gli Stati Uniti. Poi tutto è cambiato. “In qualche modo le stelle si sono riallineate, con il new deal verde in Europa, la promessa cinese a settembre e la vittoria di Biden a novembre. Probabilmente stiamo entrando in una nuova fase del multilateralismo”, sottolinea Rioux.

La grande trasformazione degli ultimi tre mesi non riguarda solo la politica. Oggi il mondo sembra radicalmente diverso rispetto a quando fu siglato l’accordo di Parigi. L’energia pulita è molto più economica e il ritmo della transizione energetica per allontanarsi dai combustibili fossili è sorprendente. La combinazione di progresso tecnologico e consapevolezza dei danni provocati dal cambiamento climatico ha contribuito ad accelerare il processo.

Contro il carbone

Secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), tra il 2015 e il 2020 le vendite di veicoli elettrici sono quadruplicate, passando da 572mila a 2,3 milioni. Quest’anno le rinnovabili hanno rappresentato il 90 per cento della nuova capacità energetica installata, contro il 50 per cento del 2015. La domanda di carbone a livello globale, in calo dal 2013, è precipitata con la pandemia e la recessione.

Secondo le previsioni dell’Iea, presto le energie rinnovabili supereranno il carbone nella produzione di elettricità, soprattutto grazie al crollo del costo dell’energia eolica e fotovoltaica. “Nel 2025 le rinnovabili diventeranno la prima fonte di elettricità del mondo, mettendo fine ai cinquant’anni di dominio del carbone”, ha dichiarato Fatih Birol, direttore esecutivo dell’agenzia. Aumentano i paesi che fissano un prezzo per l’inquinamento da carbone, una strategia inimmaginabile fino a qualche tempo fa. La settimana scorsa i prezzi dei permessi per le emissioni nell’Unione europea hanno raggiunto livelli mai visti.

Da sapere
Sotto i due gradi
Divario tra le emissioni previste per il 2030 e i livelli da rispettare per contenere sotto i due gradi il riscaldamento globale, miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente. (Fonte: Climate action tracker)

Oltre ai progressi sull’energia pulita, a rimarcare l’urgenza delle politiche ambientali sono stati anche i passi avanti fatti dalla scienza climatica negli ultimi anni. Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale, i modelli più recenti indicano che la Terra si è già riscaldata di circa 1,2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, e c’è il 20 per cento di probabilità che superi temporaneamente la soglia di 1,5 gradi entro il 2024.

Gli scienziati hanno osservato che l’anidride carbonica rimane nell’atmosfera fino a cento anni dopo essere stata emessa. Quindi l’effetto delle emissioni del passato si farà sentire ancora per molto tempo. “Gli sfasamenti nel sistema climatico ci permettono di determinare quale sarà la temperatura nel 2030 e nel 2040”, spiega Rapley. “Ci sono motivi per credere che nei prossimi decenni l’aumento della temperatura supererà comunque la soglia di 1,5 gradi, a prescindere da quello che faremo nel breve periodo”. Naturalmente questa consapevolezza alimenta la preoccupazione, ed è una delle regioni per cui i prossimi anni saranno decisivi per determinare l’andamento della temperatura del pianeta.

Bisogna anche considerare che, nonostante gli annunci fatti di recente, c’è ancora un grande divario tra gli obiettivi fissati per il 2050 e le politiche introdotte dai governi per l’immediato futuro. Firmando l’accordo di Parigi s’impegnavano, in linea teorica, a presentare nuovi obiettivi alle Nazioni Unite entro la fine del 2020. Molti traguardi sono stati annunciati durante il vertice del 12 dicembre, tra cui quello dell’Unione europea, concordato il giorno precedente. Ma la pandemia ha provocato molti ritardi, e le Nazioni Unite hanno fatto sapere che chi vorrà fissare nuovi obiettivi potrà farlo durante il 2021. Man mano che i paesi annunceranno i loro, bisognerà capire quali provvedimenti adotteranno per raggiungerli. Prendendo come riferimento solo le politiche attuali e ignorando gli impegni a lungo termine, spiega Höhne, si stima che l’aumento delle temperature entro la fine del secolo sarà intorno ai 2,9 gradi.

Attivisti scontenti

Perfino il Regno Unito, che dovendo ospitare la conferenza sul clima Cop26 aveva fissato un traguardo molto ambizioso per il 2030, non ha ancora presentato le misure che dovrebbero ridurre rapidamente le emissioni. Negli Stati Uniti Biden potrebbe avere molte difficoltà a far approvare dal congresso il suo piano per il clima da duemila miliardi di dollari.

“Sono stati fatti annunci entusiasmanti, ma non è il momento di cantare vittoria”, dice Inger Andersen, direttrice del programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep). Andersen cita un rapporto dell’Unep secondo cui le promesse recenti sono comunque inadeguate, anche considerando la riduzione delle emissioni dovuta alla pandemia. “Se la temperatura dovesse aumentare di tre o addirittura quattro gradi, la devastazione causata dal covid-19 sarà solo un assaggio del futuro”, sottolinea Andersen. Il pianeta continuerà a riscaldarsi, e con ogni probabilità i disastri naturali che hanno segnato il 2020 – dagli incendi devastanti in California alle ondate di caldo in Siberia – si verificheranno anche nel 2021.

Nonostante le dichiarazioni rilasciate dai leader politici al vertice sul clima del 12 dicembre, i giovani attivisti continueranno a fare pressione su di loro. “Ancora non c’è traccia dei provvedimenti che potrebbero veramente fare la differenza”, ha dichiarato Thunberg in un video pubblicato su Twitter alla vigilia del vertice. L’ambientalista svedese è convinta che dopo la conferenza di Parigi sono state pronunciate solo parole vuote. “Vengono fissati obiettivi ipotetici e distanti, accompagnati da grandi discorsi. Ma quando si parla di misure immediate e concrete, siamo ancora in uno stato di totale negazione”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati