Tra i fan di Bruce Springsteen circola da anni un aforisma: “Il mondo si divide in due categorie di persone: quelle che amano Bruce Springsteen e quelle che non l’hanno mai visto dal vivo”. La stessa frase si può applicare a Nick Cave. Il cantautore australiano è capace di trasformare ogni sua esibizione in una specie di rito trascendente, in cui le barriere tra chi sta sul palco e chi sta sotto sembrano crollare ogni volta.

L’ho visto sei volte dal vivo e ogni concerto è stato speciale: il primo perché era il primo, e perché era in un locale piccolo e intimo; il secondo perché era in una sala con i posti numerati e lui al terzo pezzo è saltato sulle sedie costringendo tutti ad alzarsi in piedi; il quarto, forse il migliore di tutti, è partito in sordina per poi crescere in modo forsennato, nonostante fosse in un palazzetto famoso per l’acustica non certo impeccabile. L’ultimo, il sesto, perché è stato molto intenso nonostante fosse solo piano, voce e basso. Epifanie del genere non riguardano solo i fan, capitano quasi a tutti quelli che vedono Cave dal vivo.

Il cantautore ha dichiarato in diverse occasioni che, quando si tratta di stare sul palco, il suo punto di riferimento è Nina Simone, che nel 1999 si esibì al Meltdown festival organizzato proprio da Cave alla Royal Albert hall di Londra. Il cantautore l’ha definita una delle migliori performance alle quali abbia mai assistito. E pensare che Simone aveva 66 anni ed era affetta da alcuni problemi di salute. “Man mano che le canzoni procedevano, diventavano sempre più belle e sembrava che lei s’ingigantisse”, ha ricordato Cave. “Era semplicemente da brividi. Alla fine, si era come trasformata e redenta”.

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È proprio questa redenzione che Cave, reduce da anni tragici causati dalla perdita di due figli, sembra ricercare oggi in ogni sua esibizione. E questo succede anche in Live god, il disco dal vivo in uscita il 5 dicembre e registrato insieme ai Bad Seeds tra il 2024 e il 2025 nel corso del tour che ha accompagnato l’uscita dell’album Wild god. La scaletta include l’esecuzione completa dell’album, oltre a versioni di alcuni dei brani più amati del repertorio dell’artista. Sul palco, insieme a Cave, ci sono Warren Ellis, Jim Sclavunos, George Vjestica, Larry Mullins, Carly Paradis e Colin Greenwood, il bassista dei Radiohead.

In un brano, Conversion, la redenzione è invocata esplicitamente mentre in un altro pezzo, Joy, Cave chiede a se stesso e agli altri di abbandonare l’oscurità e di cercare la luce. Qualche mese fa Bob Dylan ha scritto su X: “Ho visto Nick Cave di recente a Parigi all’Accor Arena e sono rimasto davvero colpito da quella canzone, Joy, in cui dice: ‘Abbiamo avuto tutti troppo dolore, ora è il momento della gioia’. Stavo pensando tra me e me, sì, è proprio così”.

Tra i dischi dal vivo di Cave, dunque, Live god è quello più luminoso, dove agli arrangiamenti cupi dei Bad Seeds si accompagnano le voci di un piccolo coro a tinte gospel, e nel quale il cantante (che l’estate prossima suonerà il 28 giugno al festival La prima estate per l’unica data italiana) cerca spesso l’interazione con il pubblico, una cosa che gli succede sempre più spesso negli ultimi anni di carriera.

Non ho amato particolarmente Wild god. L’ho trovato un disco troppo saturo dal punto di vista sonoro, e a tratti i testi mi sono sembrati retorici. Eppure in questa versione dal vivo perfino i pezzi di quell’album sembrano guadagnare punti, suonano forti e compatti. E classici come From her to eternity, Tupelo e Papa won’t leave you Henry dimostrano di essere invecchiati benissimo. C’è spazio anche per un paio di brani apparentemente minori che ho sempre amato molto, come Bright horses, estratto dal capolavoro Ghosteen, e la più recente Carnage.

Il fatto che Live god sia costruito su un disco non indimenticabile, paradossalmente, ribadisce con ancora più forza un concetto: Nick Cave è uno dei più grandi performer viventi. E se non lo amate, significa che non avete mai assistito a un suo concerto.

Questo testo è tratto dalla newsletter Musicale.

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