G li esperti di bolle finanziarie vedranno molti elementi familiari nella situazione attuale: le azioni registrano i valori più alti dai tempi della bolla di internet del 2000; i prezzi delle case sono tornati ai livelli precedenti alla crisi finanziaria del 2008; anche le aziende più in difficoltà possono contrarre prestiti ai tassi più bassi di sempre; gli investitori stanno riversando denaro nell’economia verde e nelle criptovalute. Questa situazione ha delle spiegazioni logiche: dai progressi del commercio digitale a una crescita favorita da generose misure di stimolo. C’è però un fattore più importante: la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti).
Di solito i boom finanziari sono alimentati da una politica monetaria espansiva, e quella attuale lo è in modo particolare. La Fed mantiene da un anno tassi d’interesse vicini allo zero e assicura che la situazione non cambierà per altri due anni. Sta comprando obbligazioni per centinaia di miliardi di dollari. Di conseguenza il rendimento dei buoni decennali del tesoro statunitense è molto inferiore all’inflazione, e questo vuol dire che per la seconda volta in quarant’anni i rendimenti reali, cioè al netto dell’inflazione, sono negativi. Se i tassi sono così bassi ci sono delle buone ragioni. La Fed ha risposto a una pandemia che nella sua fase più acuta minacciava di provocare danni più gravi della crisi del 2008. In larga misura grazie alla Fed e al congresso statunitense, che ha approvato un pacchetto di stimoli economici per cinquemila miliardi di dollari, questa volta la ripresa sembra molto più sana. Tutto ciò, però, potrebbe eliminare i motivi alla base di tassi così bassi, cioè il fattore che favorisce valori di borsa elevati. Quindi se la Fed dovesse passare a una politica monetaria più severa per contrastare l’inflazione e i rendimenti dei titoli di stato dovessero salire dell’1-1,5 per cento, cosa succederebbe? Secondo l’economista di Harvard Jeremy Stein, “potremmo avere una forte correzione al ribasso dei prezzi dei titoli”.
I prezzi delle case sono tornati ai livelli precedenti alla crisi finanziaria del 2008
La Fed c’è già passata. La sua disponibilità, alla fine degli anni novanta, a tagliare i tassi d’interesse in risposta alla crisi finanziaria asiatica e al quasi crollo del fondo speculativo Long term capital management è considerata da alcuni esperti il fattore che in seguito portò alla bolla di internet. Dopo l’esplosione di quest’ultima, l’abbassamento dei tassi d’interesse deciso dalla Fed sarebbe stato considerato responsabile dell’aumento dei prezzi delle case, alla base della crisi del 2008. In entrambe le circostanze la Fed ha difeso le sue scelte sostenendo che aumentare i tassi d’interesse (o tagliarli) solo per prevenire le bolle avrebbe compromesso l’obiettivo principale, cioè controllare la disoccupazione e l’inflazione, provocando un danno maggiore di quello prodotto lasciando che la bolla si sgonfiasse da sola.
Tornando ai nostri giorni, in un rapporto pubblicato all’inizio di maggio la Fed ha avvertito che “i valori delle azioni sono generalmente alti” ed “esposti a ribassi significativi se negli investitori dovesse diminuire la disponibilità a rischiare, se i progressi nel contenere la pandemia fossero deludenti o se la ripresa dovesse stagnare”. Le chiusure legate alla pandemia hanno avuto conseguenze economiche inizialmente più pesanti rispetto alla crisi del 2008. Dopo due mesi, però, l’attività economica ha cominciato a riprendersi con l’alleggerirsi delle restrizioni e l’adattamento delle attività al distanziamento sociale. La Fed ha avviato nuovi programmi di sostegno e il congresso ha approvato misure per 2.200 miliardi di dollari. Inoltre, i vaccini sono arrivati prima del previsto. L’economia statunitense dovrebbe tornare ai volumi precedenti alla pandemia già a metà del 2021.
Ma nonostante le prospettive il rubinetto del governo e quello della Fed restano aperti. Questa immissione di stimoli monetari e fiscali senza precedenti in un’economia che si sta già riprendendo grazie ai vaccini è, secondo un sondaggio della Bank of America, il motivo dell’ottimismo di Wall street. Le previsioni sui profitti sono cresciute rapidamente, ma il valore delle azioni è cresciuto ancora di più. Secondo FactSet, l’S&P 500, l’indice delle principale aziende quotate alla borsa statunitense, ha valori che superano di 22 volte i profitti per il prossimo anno, un livello oltrepassato solo al culmine del boom della bolla di internet. I prezzi degli immobili residenziali e commerciali, adeguati all’inflazione, sono vicini al picco raggiunto nel 2006.
Di recente la Bank of America ha osservato che le aziende con emissioni relativamente basse di anidride carbonica e maggiore efficienza idrica hanno valutazioni più alte. Questi dati non sono il risultato di guadagni superiori, ma di una marea di fondi investiti secondo criteri che tengono conto dei fattori ambientali, sociali e di gestione aziendale. La valutazione convenzionale è poi inutile per le criptovalute che non fruttano interessi, rendite o dividendi. Secondo CoinDesk, al 7 maggio le criptovalute avevano un valore pari a 2.400 miliardi di dollari, più di tutti i dollari in circolazione.
Va considerata inoltre l’azione dell’innovazione finanziaria. Oggi le app come Robinhood, che permettono di investire in borsa a zero commissioni, e i social network hanno accresciuto il potere degli investitori individuali. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, un’organizzazione che raggruppa le banche mondiali, questi investitori influenzano sempre di più la direzione generale del mercato. Le persone sono più propense a comprare le azioni di un’azienda per ragioni non connesse al suo andamento ma, per esempio, perché ha un nome simile a quello di un altro titolo in salita.
Profitti deludenti
È impossibile prevedere come o, addirittura, se tutto questo finirà. Alla fine i titoli più quotati potrebbero ottenere profitti che giustificano le valutazioni attuali, mentre altri titoli potrebbero crollare schiacciati dai profitti deludenti o perché emergono dei concorrenti. Prima solo il bitcoin minacciava di scalzare il dollaro, mentre oggi si propongono di fare la stessa cosa molte altre criptovalute. Prima la Tesla era l’unico titolo da comprare per scommettere sui veicoli elettrici, oggi ci sono la cinese Nio e le statunitensi Nikola e Fisker, per non parlare di case automobilistiche consolidate, come la Volkswagen e la General Motors, che cominciano a lanciare modelli elettrici.
Perché si verifichi un crollo generalizzato delle azioni ci dovrebbe essere un evento macroeconomico, come una recessione, una crisi finanziaria o l’inflazione. La Fed sottolinea che la pandemia continua a essere la più grave minaccia all’economia e, di conseguenza, al sistema finanziario. Tuttavia per il momento, con il virus in fase calante, una recessione appare improbabile. Non si può escludere una crisi finanziaria legata a qualche fragilità nascosta. Le banche però hanno talmente tanto capitale e la sottoscrizione dei mutui è sottoposta a regole così rigide che la prospettiva che possa succedere qualcosa di simile alla crisi del 2008 appare remota. Se gli acquisti di titoli spazzatura, criptovalute o azioni tecnologiche avvengono soprattutto con denaro preso in prestito, un crollo del loro valore potrebbe provocare un’ondata di vendite forzate, bancarotte e, potenzialmente, una crisi. Ma non sembra stia succedendo.
Resta l’inflazione. La paura dell’inflazione è diffusa, con i prezzi e i costi spinti in alto dalla carenza di semiconduttori, legname e manodopera. Secondo le previsioni di molti, compresa la Fed, queste pressioni si alleggeriranno con la riapertura dell’economia e il ripristino delle normali abitudini di consumo. Nonostante ciò gli investitori si aspettano per i prossimi anni un’inflazione media intorno al 2,5 per cento. Di sicuro non è paragonabile a quello che si è visto negli anni settanta, ma sarebbe un’evidente rottura rispetto alla variazione inferiore al 2 per cento dell’ultimo decennio.
Preoccupa di più il fatto che i rendimenti dei titoli di stato nel lungo periodo, fondamentali per il valore delle azioni, potrebbero crescere in misura sensibilmente superiore. Dalla fine degli anni novanta, i prezzi dei titoli di stato e delle azioni hanno manifestato la tendenza a muoversi in direzioni opposte: quando l’inflazione non è una preoccupazione, i titoli di stato sono una sorta di assicurazione contro le perdite sui mercati e gli investitori accettano rendimenti inferiori. Se l’inflazione dovesse tornare a essere un problema, i titoli di stato perderebbero questa funzione e i loro rendimenti aumenterebbero.
Negli ultimi mesi la correlazione tra mercato azionario e titoli di stato ha cominciato a venire meno. Da tempo gli investitori agiscono come se l’inflazione non dovesse più subire oscillazioni. Potrebbero aver ragione. Ma in caso contrario, questa scelta potrebbe rivelarsi particolarmente costosa. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 129. Compra questo numero | Abbonati