Di giorno Denny Covezzi lavora in un negozio di attrezzature da pesca e Andrea Mocchi in una fabbrica. Ma al tramonto indossano pesanti uniformi grigie e partono con la loro piccola barca per pattugliare il fiume.

Vanno alla ricerca di tutto ciò che sembra sospetto: reti, trappole, un furgone parcheggiato vicino alla riva. Si sente un fruscio tra i cespugli e Covezzi avvicina la barca per controllare: “Dev’essere stato un animale”, dice. Più tardi notano qualcosa nell’acqua: piccole trappole fatte in casa con filo metallico e bottiglie di plastica. Le caricano a bordo e le rompono. I cacciatori di pirati, come li chiamano i mezzi di informazione locali, cercano i bracconieri sul delta del Po. Prima di gettarsi nel mare Adriatico, la parte salmastra del Po si apre in uno dei più grandi delta d’Europa, fino a poco fa molto frequentato dai bracconieri.

Ma qualcosa sta cambiando. Negli ultimi tre anni, proprio grazie al contributo di volontari come Covezzi e Mocchi, che tagliano le reti e aiutano a identificare i criminali, è partita una serie di indagini del gruppo forestale dei carabinieri e delle autorità di Romania, Spagna, Francia e Regno Unito. Il risultato è che il numero dei bracconieri è diminuito di circa un terzo rispetto al periodo di massima attività, tra il 2013 e il 2016.

È un successo notevole, soprattutto se si considera quanto il bracconaggio sia diventato redditizio da queste parti. La pesca illegale ha una lunga tradizione nella zona, ma fino agli anni sessanta era praticata in gran parte da famiglie povere che vivevano della pesca di anguille. Negli ultimi anni, invece, le organizzazioni criminali l’hanno portata a un livello industriale sfruttando le intimidazioni e vari punti di osservazione sul delta collegati tra loro. “Possono pescare anche fino a venti tonnellate in una sola notte”, afferma il coordinatore del gruppo di volontari, Alessandro Pagliarin.

In passato le forze dell’ordine faticavano a sorvegliare il delta, che si estende per 1.400 chilometri quadrati, e i bracconieri avevano libertà d’azione. Al suo culmine il giro d’affari del bracconaggio valeva cinque milioni di euro all’anno, con circa duecento persone coinvolte. “Si può immaginare un’azienda normale che faccia questi profitti con un investimento così basso?”, dice Stefano Testa, comandante del Nucleo antibracconaggio dei carabinieri.

Struttura piramidale

Gli italiani consumano poco pesce d’acqua dolce, ma i bracconieri vendono carpe, pesci gatto e siluri (che possono superare i due metri di lunghezza) in Europa orientale, dove la domanda è alta. Testa dice che le bande criminali hanno una struttura piramidale, con i responsabili d’area che controllano gli operai e degli “intermediari tra i responsabili che pescano in Italia e i distributori nell’Europa orientale”. Secondo Testa, molti dei bracconieri provengono dal delta del Danubio in Romania, dove era comune pescare illegalmente fino a quando, all’inizio degli anni 2010, le autorità romene hanno inasprito i controlli. “Il delta del Po è simile a quello del Danubio, quindi possono usare le stesse tecniche”, spiega Testa. Tra queste c’è l’uso di storditori elettrici ricavati dalle batterie delle auto o lo scarico di sostanze chimiche in acqua, per poi raccogliere il pesce usando le reti da traino, con effetti devastanti sull’ecosistema.

Ma corre dei rischi anche chi mangia questi pesci. “Il pesce del Po può essere molto inquinato, non dovrebbe essere mangiato”, dice Michele Valeriani del Gruppo Siluro, un’associazione locale di pesca ricreativa che cerca di sensibilizzare alle tematiche ambientali.

Costretti ad agire di notte

Sono stati proprio i pescatori sportivi i primi ad accorgersi, più o meno dieci anni fa, che nella zona stava succedendo qualcosa di strano. “All’improvviso iniziammo a trovare decine di pesci morti nelle chiuse del canale”, dice Valeriani. “È improbabile che cinquanta pesci muoiano di cause naturali nello stesso momento”. Sospettarono che dietro queste morti ci fosse la mano dei bracconieri, quindi decisero di formare subito delle pattuglie per controllare. Ci furono i primi successi. “All’inizio i bracconieri erano attivi anche di giorno, dato che non c’erano controlli”, racconta Covezzi. “Ma ormai li abbiamo costretti ad agire di notte”. I volontari hanno confiscato le reti e liberato migliaia di pesci.

Continuando il loro giro in barca Covezzi e Mocchi s’imbattono in una tenda e chiedono al pescatore di mostrargli la licenza. Non è un bracconiere. È piuttosto comune che i pescatori che praticano la pesca ricreativa trascorrano la notte sulla riva del delta e la legge gli impone di liberare il pescato.

Mocchi, che è sposato con figli, dice che le ronde notturne stanno mettendo a dura prova la sua vita familiare. Covezzi, invece, racconta di essere incoraggiato dalla sua ragazza: “Spesso insiste per venire con noi”.

Sono contenti che la criminalità organizzata sul delta sembri battere in ritirata, ma è troppo presto per cantare vittoria. “Come ci ha insegnato la storia recente, questi gruppi criminali si dileguano quando si sentono sotto pressione e riemergono appena abbassiamo la guardia”, dice Pagliarin. “Il nostro compito è continuare a pattugliare. Siamo gli occhi del delta”. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati