“Ma come è possibile che ci sia questa euforia per un banchiere e un generale?”. Sembro un ventenne con l’eskimo quando discutendo con il mio amico paragono la popolarità di Draghi e Figliuolo a una commedia anni settanta. L’amico, adulto e pragmatico, ne fa una questione di buona amministrazione, e io, da velleitario, la ributto sul simbolico. L’immensamente grande ci distrae dall’infinitamente piccolo, e trovo conforto nella storia di Silvano Agosti, regista e custode dell’ultimo cinema d’essai romano, “sfrattato” dalla pandemia, dalla burocrazia e dal Vaticano, proprietario della sala. Lo intervista Domenico Iannacone per la nuova edizione di _Che ci faccio qui _(Rai 3), con il suo stile da apostolo Tommaso che interroga i cristi sulla ragione dei loro miracoli. Agosti ricostruisce la storia felice dell’Azzurro Scipioni, parabola minima di cura e lentezza, le poltrone dismesse dei jumbo, le pellicole originali dei film d’autore. Mentre smonta tutto, ricorda quel pubblico che “entrava depresso e ne usciva con un senso di beatitudine”. Non si strappavano biglietti, solo libera offerta. Negli ultimi mesi, quelli del virus, Agosti aveva segnato le sedute accessibili con un piccolo fiore. Ma non è bastato a fermare la “buona amministrazione”. La serranda si abbassa sul nostro stupore, sulla nostra distrazione di cui Iannacone è messaggero, e sulla promessa di Agosti di riaprire altrove il suo rifugio in celluloide. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati