Mputu ha lo sguardo spento e la fronte bagnata di sudore. È congolese, ha 35 anni ed è abituato al caldo umido del sud del Messico, ma è sfiancato dalla frustrazione: “Ho attraversato dodici paesi, ho rischiato la vita, sono stato derubato di quel poco che avevo. E tutto per ritrovarmi in questa situazione”. Intorno a lui, davanti al centro di detenzione per migranti di Tapachula, una città nello stato del Chiapas vicino alla frontiera con il Guatemala, ci sono decine di tende.

Come Mputu, quasi tremila africani sono bloccati in questa cittadina senza fascino. Dopo l’accordo firmato il 7 giugno 2019 tra il governo del Messico e quello degli Stati Uniti, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, detto Amlo, ha inasprito la politica di accoglienza verso i migranti. Questa svolta strategica, avvenuta sotto la minaccia del presidente statunitense Donald Trump, ha trasformato Tapachula in una sorta di vicolo cieco per i migranti.

Un odore di legna bruciata sovrasta l’accampamento improvvisato, mentre i bambini giocano sul ciglio di una strada trafficata. Sono ormai cinque mesi che centinaia di congolesi, camerunesi e angolani vivono qui. Sotto un telone di plastica, un gruppo di donne con dei vestiti variopinti cucina il _ fufu_, una polenta in cui la farina di mais ha sostituito quella tradizionale di manioca dell’Africa occidentale. Vicino, un uomo con indosso un paio di boxer approfitta di un acquazzone per lavarsi.

“Non ci sono servizi igienici né acqua corrente”, protesta Mputu. “Non ci danno nulla. Per andare in bagno dobbiamo nasconderci dietro agli alberi”. Elettricista di professione, guarda con l’aria ipnotizzata lo spesso portone metallico del più grande centro di detenzione per migranti del Messico, che somiglia a una prigione: “Sono rimasto rinchiuso qui per otto giorni”, racconta. Si era rivolto alla polizia locale sperando di ottenere un lasciapassare. Ma ha capito in fretta la situazione: “Prima il governo messicano concedeva dei visti di transito, ora la politica è cambiata. Mi hanno dato un permesso di residenza valido solo per il sud del Messico”.

Mputu tiene a freno la rabbia, ma alcuni suoi compagni di viaggio non ci riescono più. Lanciano pietre contro i circa venti poliziotti che controllano il centro e bruciano degli pneumatici. Con lo scudo in mano e il casco in testa, gli agenti caricano i migranti. Bilancio degli scontri: cinque feriti leggeri tra cui due poliziotti. “È insopportabile essere degli ostaggi di Trump”, dice un quarantenne angolano con una pietra in mano. Alla fine di difficili negoziati, il governo ha evitato i dazi doganali minacciati dalla Casa Bianca, ma in cambio López Obrador ha accettato di frenare i migranti in Messico. Da allora decine di migliaia di persone sono bloccate nel sud del paese.

“Ci trattano come delle bestie”, dice sospirando Vera, una maestra di scuola camerunese di 26 anni. Come molti suoi connazionali, è fuggita dal sudovest del Camerun a causa del conflitto in Ambazonia (la regione anglofona del paese) tra i separatisti anglofoni e il potere francofono. “La mia scuola si è trovata al centro degli scontri tra secessionisti e forze governative”, racconta. “È stata la goccia che mi ha convinto a partire”.

Così ha preso un volo per l’Ecuador, dove non serve un visto d’ingresso. Poi ha raggiunto il Messico viaggiando in autobus e a piedi. Arrivare in Europa è impossibile: “È troppo pericoloso attraversare i paesi arabi in guerra e poi il Mediterraneo”, dice. “Quindi abbiamo scelto gli Stati Uniti: ci sembrava una destinazione più facile da raggiungere dopo l’elezione di López Obrador in Messico”.

Muro di contenimento

Subito dopo il suo insediamento, il 1 dicembre 2018, il nuovo presidente messicano (di centrosinistra) aveva teso la mano ai migranti, promettendo di concedergli il diritto di libera circolazione nel paese. Ammiratore di Gandhi e Martin Luther King, López Obrador aveva concesso 12.500 visti umanitari di un anno rinnovabili, che permettevano ai migranti di lavorare e di spostarsi nel territorio messicano. “In Messico sono arrivati molti migranti provenienti dall’America Centrale, ma anche da Cuba, da Haiti, dall’Africa e perfino dall’Asia”, spiega Claudia León, coordinatrice del Servizio gesuita per rifugiati a Tapachula.

In questa cittadina convivono migranti di 25 nazionalità, tra cui indiani, pachistani e siriani, che si aggiungono ai guatemaltechi, agli honduregni e ai salvadoregni, il gruppo di gran lunga più numeroso. Scappano dalla povertà e dalla violenza delle gang criminali centroamericane. “Sono aumentate anche le famiglie e i minori non accompagnati”, spiega León. Senza contare il fenomeno delle carovane di migranti: la prima, partita dall’Honduras alla metà di ottobre del 2018, aveva riunito più di 7mila persone, che insieme avevano raggiunto la città messicana di Tijuana, al confine con gli Stati Uniti.

Negli ultimi tempi i flussi migratori sono aumentati moltissimo. Secondo il servizio delle dogane e della protezione delle frontiere degli Stati Uniti, tra l’ottobre del 2018 e il settembre del 2019 le pattuglie di frontiera statunitensi hanno arrestato 977.509 migranti, con un incremento dell’88 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. Al punto che alla fine del 2018 Donald Trump, che ha fatto della lotta all’immigrazione il suo principale cavallo di battaglia, ha minacciato di chiudere la frontiera con il Messico.

A febbraio del 2019 l’Instituto nacional de migración (Inm) ha limitato il rilascio di visti umanitari, sostituiti da “certificati di visitatore regionale” che consentono ai migranti di spostarsi solo nei cinque stati meridionali del Messico, Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán e Quintana Roo. Tuttavia il flusso migratorio è andato avanti raggiungendo il record di 144.116 arresti a maggio al confine con gli Stati Uniti.

A Ciudad Hidalgo, sulle rive del fiume Suchiate, le tute mimetiche degli agenti della guardia nazionale fanno parte del paesaggio

Il presidente statunitense ha alzato i toni annunciando l’imposizione di una tassa del 5 per cento sulle importazioni provenienti dal Messico, accusato di lassismo. Una minaccia molto seria per un
paese in cui l’80 per cento delle esportazioni è destinato agli Stati Uniti. “López Obrador ha ceduto a Washington”, dice León con rammarico. “Di fatto l’accordo ha trasformato il Messico in una sorta di ‘muro di contenimento’, in grado di sostituire quello che Trump non riesce a costruire alla frontiera meridionale degli Stati Uniti”. Da giugno, oltre ai militari, il governo messicano ha inviato seimila agenti della nuova guardia nazionale a sud e altri 15mila a nord.

A Ciudad Hidalgo, sulle rive del fiume Suchiate, che separa il Messico dal Guatemala, le tute mimetiche degli agenti fanno ormai parte del paesaggio. “L’anno scorso facevo passare molti migranti”, racconta Jairo, un guatemalteco di 25 anni sulla sua zattera di fortuna. “Ma oggi, a causa della presenza dei soldati, quasi più nessuno si azzarda ad attraversare il fiume. Ci passano solo le merci”.

Seduto sul suo taxi, un camioncino a tre ruote, Marco Antonio Rodríguez, 70 anni, guarda la riva messicana: all’ombra delle palme ogni dieci metri sono appostati gli agenti della guardia nazionale. “È solo una dimostrazione di forza”, dice con ironia. La sua pelle è cotta dal sole. “I migranti continuano ad attraversare il fiume pochi chilometri più lontano”. Tecún Umán, il paese guatemalteco di fronte a Ciudad Hidalgo, in Messico, sembra una cittadina fantasma. Le strade in terra battuta senza sorveglianza contrastano con quelle asfaltate e controllate di Ciudad Hidalgo.

Controlli militarizzati

Sul lato messicano i posti di blocco sono ovunque. Lungo la strada di Tapachula, il caporale della guardia nazionale Rodolfo Mijangos controlla i veicoli in colonna. “Fermiamo clandestini tutti i giorni”, dice soddisfatto il militare. López Obrador ha bloccato la raffica di richieste di Trump riducendo del 65 per cento il numero di arresti – 52mila tra maggio e settembre del 2019 – delle autorità statunitensi. “Ma a quale prezzo?”, si chiede Brenda Ochoa, direttrice di Fray Matías de Córdova, un’organizzazione di Tapachula che difende i diritti umani. “I controlli sono stati militarizzati”.

Da gennaio ad agosto del 2019 in Messico sono stati arrestati 144.591 migranti, con un aumento del 75,6 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quasi un terzo sono minorenni.

Messico, 23 agosto 2019. Migranti e agenti a Tapachula (Jacky Muniello, Bloomberg/Getty Images)

La sera il via vai di autobus intorno al centro di detenzione di Tapachula è impressionante. La maggior parte dei mezzi arriva vuoto e riparte pieno dopo qualche minuto. Anche le espulsioni hanno raggiunto delle cifre record: 94.970 da gennaio ad agosto, rispetto alle 71.879 dell’anno prima, la maggior parte verso il Centroamerica.

L’Inm non ha autorizzato Le Monde a visitare il centro di Tapachula. Brenda Ochoa, invece, lo conosce molto bene. Le organizzazioni per la difesa dei migranti lo hanno criticato a causa del suo sovraffollamento, delle cattive condizioni igieniche e delle razioni alimentari insufficienti. “Sono stati segnalati anche casi di tortura da parte degli agenti dell’Inm”, dice Ochoa. Oggi la situazione sembra leggermente migliorata: “L’aumento delle espulsioni ha liberato dei posti”.

La maggior parte dei migranti espulsi è originaria dell’America Centrale. Quasi nessuno viene dall’Africa o dall’Asia. Tuttavia tra gennaio e agosto sono stati arrestati 5.286 cittadini africani, il triplo rispetto all’anno precedente. Secondo Ochoa, “la mancanza di una rappresentanza consolare protegge gli africani dalle espulsioni, ma non dai problemi amministrativi. Le difficoltà burocratiche sono tante per disincentivarli a restare. L’unica possibilità per loro sarebbe chiedere asilo in Messico, ma molti non vogliono farlo e finiscono in un vicolo cieco”.

Brenda Ochoa critica la repressione della polizia contro le carovane dei migranti. Il 12 ottobre circa duemila migranti erano partiti a piedi da Tapachula diretti a Città del Messico, più di mille chilometri a nord. Ma dopo cinque ore di marcia centinaia di guardie nazionali gli avevano sbarrato la strada. “Il convoglio è stato sciolto con la violenza, nonostante la presenza di donne incinte e bambini”, afferma arrabbiato Luis Villagrán, avvocato e difensore dei diritti dei migranti.

Per fare i controlli il governo ha coinvolto anche le compagnie di pullman. Nella stazione di Tapachula un autista conferma che senza carta d’identità nessuno può salire a bordo. “È una vera e propria crisi umanitaria”, denuncia Villagrán. Di notte molti cittadini honduregni, salvadoregni, cubani, haitiani e africani dormono per le strade di Tapachula, perché non possono pagarsi un alloggio. Claudia León, del Servizio gesuita per i rifugiati, dice: “Il governo messicano sta violando la convenzione delle Nazioni Unite del 1951 perché costringe i profughi a rimanere in un paese in cui non vogliono chiedere asilo”.

Secondo Abbdel Camargo, uno specialista delle migrazioni, “la politica di López Obrador è schizofrenica. Da un lato il suo governo moltiplica le detenzioni, dall’altro continua a promuovere un approccio umanitario alla migrazione”. Alla fine di novembre Amnesty international ha pubblicato un rapporto sulla situazione dei diritti umani in Messico intitolato When words are not enough, quando le parole non bastano. Nel documento si denuncia l’incoerenza tra le parole del presidente e le misure adottate dal suo governo, in particolare quelle contro i migranti.

López Obrador, però, ignora queste critiche. Ripete che “bisogna occuparsi delle cause principali della migrazione, in primo luogo la povertà e la violenza. Solo così la gente emigrerà non per necessità, ma solo per scelta”. Il primo presidente di sinistra del Messico dall’inizio degli anni ottanta assicura che il suo paese rispetta il Patto mondiale sulla migrazione approvato dalle Nazioni Unite e firmato da 154 paesi nel dicembre del 2018, che raccomanda una migrazione sicura, ordinata e regolata. A questo scopo López Obrador ha annunciato un ambizioso piano di sviluppo regionale che dovrebbe creare centinaia di migliaia di posti di lavoro nel Messico meridionale e in America Centrale. Il governo ha avviato un programma che prevede di piantare un milione di alberi da frutta in Chiapas e in altri stati del sud, e ha finanziato un progetto equivalente di 100 milioni di dollari nel Salvador, in Honduras e Guatemala. All’inizio di ottobre 2019 Washington ha annunciato un piano simile destinato all’America Centrale, ma i fondi statunitensi non sono ancora arrivati. Nel frattempo nessun rappresentante dei vari ministeri messicani coinvolti ha accettato di rispondere alle domande di Le Monde. Camargo è scettico sulla portata di questi progetti di sviluppo: “Ci metteranno decenni per cambiare la situazione in regioni così povere”.

Speranza

Rose Carmelle, un’haitiana di 33 anni incontrata sulla piazza principale di Tapachula, racconta la sua situazione fatta di povertà, violenza ed emigrazione. “Gli stipendi sono troppo bassi”, dice questa madre di cinque figli che lava i piatti in un ristorante del quartiere. “Guadagno solo 100 pesos (4,70 euro) al giorno. Non mi bastano per pagare un alloggio, mangiare e mandare i soldi ai miei figli rimasti a casa”. Carmelle confessa di essersi rassegnata a prostituirsi per sopravvivere, ma spera ancora un giorno di poter raggiungere gli Stati Uniti o il Canada. Molti invece hanno rinunciato al sogno americano. Da gennaio a ottobre 62.299 persone hanno presentato domanda di asilo in Messico: più del doppio rispetto al 2018, quasi venti volte il numero del 2015.

Dalle cinque del mattino una lunga coda si forma davanti ai locali della Comisión mexicana de ayuda a refugiados (Comar). Julio Mejía, un honduregno di 24 anni, è seduto accanto alla porta con una cartella di documenti in mano: “Nel mio paese sono stato minacciato di morte da una gang criminale. Il mio migliore amico è stato ucciso sotto i miei occhi e io sono il prossimo nella lista. Ho venduto il cellulare per pagarmi l’autobus fino al Guatemala. Rimarrò in Messico fino a quando la strada per gli Stati Uniti sarà chiusa”.

La responsabile locale della Comar, Alma Delia Cruz, ha il volto stanco: “Siamo travolti dalle richieste”, dice. Eppure la commissione ha appena inaugurato dei nuovi locali più spaziosi e ha raddoppiato il personale. “Ma non basta”, sospira Cruz. “Siamo 64 di fronte a una valanga di richieste”. Kristin Halvorsen, responsabile dell’agenzia locale delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si rammarica che la “Comar abbia gli stessi fondi di quattro anni fa, mentre il Messico è passato dallo status di paese di transito a quello di paese d’accoglienza”.

Per evitare i controlli, i migranti si allontanano dalle rotte abituali, esponendosi ancora di più alla violenza del crimine organizzato

La tendenza rischia di aggravarsi: l’11 settembre la corte suprema degli Stati Uniti ha confermato l’inasprimento delle regole sull’asilo decise da Trump. Le richieste dei migranti dovranno essere sistematicamente rifiutate se questi non hanno già presentato domanda in Messico o in un altro paese attraversato. Tuttavia López Obrador continua a dire che il suo governo non vuole che il Messico diventi un paese terzo sicuro, una condizione che costringe i richiedenti asilo a portare avanti le procedure in questo paese poiché qui la loro sicurezza non è più in pericolo.

“Di fatto con l’accordo del 7 giugno il Messico svolge già il ruolo di paese terzo sicuro per gli Stati Uniti”, assicura Camargo. “Oggi il Messico garantisce l’accoglienza a chi chiede asilo negli Stati Uniti per tutto il tempo che serve alla giustizia statunitense per esaminare le domande”. Il risultato è che più di 50mila migranti aspettano, bloccati nel paese.

“Washington sa che Città del Messico non può gestire da sola la crisi, così ha firmato con il governo del Guatemala, dell’Honduras e del Salvador degli accordi migratori, allontanando sempre di più i migranti dalla frontiera statunitense”, aggiunge Camargo. In cambio a ottobre Trump ha annunciato il ristabilimento degli aiuti umanitari destinati ai tre paesi centroamericani (615 milioni di dollari all’anno), che aveva tagliato a marzo del 2019.

Argomento tabù

In Guatemala l’accordo con Washington ha provocato molte critiche. “Il mio paese non è affatto sicuro”, afferma Mario Morales, coordinatore della Casa del migrante nel centro di Tecún Umán. “Come possiamo accogliere delle persone che chiedono asilo quando il governo guatemalteco non è in grado di trattenere la sua stessa popolazione?”.

Morales fa notare che da giugno il numero di migranti ospitati in Guatemala è diminuito: “Sono sempre in molti a scappare dalla violenza (nel paese ci sono 26 omicidi per 100mila abitanti) e dalla povertà, ma sono di meno le persone che lo fanno attraversando il Guatemala”. Secondo Morales, è una delle conseguenze perverse degli accordi migratori firmati con gli Stati Uniti: “Per evitare i controlli i migranti si allontanano dalle rotte abituali, esponendosi ancora di più alla violenza del crimine organizzato”.

Un comunicato di Medici senza frontiere (Msf) pubblicato alla fine di ottobre conferma quest’analisi: “I nostri pazienti parlano di sequestri, torture, violenze, trattamenti disumani e abusi sessuali per estorcergli soldi alla frontiera del Guatemala in direzione di Tenosique, in Messico”. A ottocento chilometri a nord di Ciudad Hidalgo e Tecún Umán, Tenosique è stata per molto tempo trascurata dai migranti in viaggio verso gli Stati Uniti. Ma oggi la situazione è cambiata: “Le politiche del governo messicano obbligano la popolazione migrante a scegliere itinerari sempre più pericolosi”, denuncia Msf.

Da sapere
In attesa
Stima approssimativa dei migranti bloccati in Messico in attesa che le loro domande di asilo siano esaminate negli Stati Uniti (Fonte: Wola, Strauss center, Trac immigration)

Alcune testimonianze raccolte nella casa di accoglienza Jesús el buen pastor, alla periferia di Tapachula, sono agghiaccianti. “Mio fratello è stato rapito da un gruppo armato dopo aver attraversato il fiume Suchiate in un punto difficile”, racconta un uomo di 30 anni del Salvador che chiede di rimanere anonimo. “Da allora non l’ho più rivisto, anche se la mia famiglia negli Stati Uniti ha pagato per la sua liberazione”. Un racconto confermato dal rapporto di Msf, che denuncia scariche elettriche sugli organi genitali e all’ano, e ferite da arma da fuoco e arma bianca inflitte dalla criminalità organizzata.

Per i migranti quest’argomento rimane un tabù. Seduto nel cortile affollato della casa d’accoglienza, gestita da una suora con l’aiuto di cinque volontari, il salvadoregno preferisce cambiare discorso: nonostante il sovraffollamento, qui ha trovato “un’oasi di pace”, dice.

L’istituto, concepito per 250 persone e finanziato attraverso donazioni private, ne accoglie più del doppio, di cui un terzo bambini. Di giorno i corridoi e i portici si trasformano in terreni di gioco per i più piccoli e in cucine o lavanderie per gli adulti. Di notte diventano dei dormitori improvvisati, pieni di materassi di gommapiuma.

María Celenea Castro, una donna honduregna che gioca con il figlio di sette anni, ha una speranza che non riesce a togliersi dalla testa: “Raccogliere il denaro necessario per pagare un trafficante che mi farà uscire da qui”, confessa.

Un futuro migliore

Di fatto la crisi migratoria favorisce quelli che i messicani chiamano coyotes o polleros, trafficanti di persone. “Le loro tariffe sono sempre più alte”, dice Camargo. “Prima i migranti chiedevano il loro aiuto solo per superare il confine con gli Stati Uniti. Ora i loro servizi sono necessari molto prima, per superare i controlli migratori negli altri paesi di transito”. Secondo il governo messicano i migranti pagano fra i 3.500 e i settemila dollari per attraversare il Messico, e spendono il doppio per risalire dal Sudamerica fino agli Stati Uniti.

Città del Messico ha dichiarato guerra a questo traffico, valutato in sei miliardi di dollari all’anno. Secondo l’Inm, dal 15 giugno al 24 ottobre 2019 sono stati arrestati 180 trafficanti di persone e sequestrati 140 veicoli. Ma è solo la parte più visibile di un’attività mafiosa in piena espansione: “La maggior parte dei migranti si nasconde nei camion”, dice Camargo. “Per evitare i controlli il crimine organizzato ha diversificato le sue rotte, in particolare scegliendo di muoversi via mare”.

L’11 ottobre, dopo il naufragio di una piccola imbarcazione, due cittadini camerunesi sono stati trovati morti su una spiaggia dello stato del Chiapas. A bordo dell’imbarcazione c’erano altri dieci migranti, tutti africani, che sono stati soccorsi. Tragedie come queste si moltiplicano e nel frattempo lungo la frontiera meridionale del Messico i migranti bloccati stanno perdendo la pazienza.

Davanti al centro di detenzione di Tapachula, Mputu dice senza giri di parole: “Preferisco rischiare la vita con i trafficanti nella speranza di un futuro migliore, invece di morire a casa mia senza averci provato”. ◆adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1341 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati