Francesca Ghermandi è una grande autrice che ha spesso trasfigurato follie e ossessioni del mondo contemporaneo, comprese quelle del nostro nordest, in una sorta di Disneyland rivista da David Lynch. Ma è anche l’unica autrice o autore, a livello mondiale, ad avere la stessa forza plastica dei grandi disegnatori del fumetto popolare che lavoravano sulle rotondità, come Jack Cole e il suo Plastic Man, Jacovitti, Al Capp. Una forza plastica straordinaria, sempre in oscillazione delicata, sottile, tra il suo contenimento e il suo lasciarsi andare, fino a esplodere. Nelle sue storie, delle ex forme perfette, spesso rotonde, sembrano i resti di un oggetto (o un essere) esploso, dinamitato. Il padre Quinto è stato uno dei grandi scultori del dopoguerra e nelle sue opere ritroviamo queste forme non finite o semiesplose, che a volte potrebbero esseri strani esseri di un altro mondo, non lontano dall’animismo, concettuale e infantile al contempo, che la figlia infonde al suo mondo, nevrotico e costellato dai simboli impazziti del consumismo. Così, raccontando finalmente con umanità e umorismo il suo rapporto nevrotico e conflittuale ma profondo con il padre, in realtà amatissimo, l’autrice riprende lo stile bozzettistico vicino al suo capolavoro precedente, I misteri dell’oceano intergalattico, dove i personaggi erano piccoli grumi di materia incompiuta e fuligginosa. Come qui, dove inventa un nuovo concetto di autobiografia.
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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati