Andando avanti a questo ritmo, il debito degli Stati Uniti aumenterà di 2.400 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Nel 2028 supererà il record toccato dopo la seconda guerra mondiale. In Francia il rapporto tra il debito pubblico e il pil, attualmente al 116 per cento, è ai massimi storici in tempo di pace. In Giappone è il doppio, al 237 per cento. Dopo la grande crisi finanziaria del 2008 e ancora di più dopo la pandemia di covid-19, il mondo occidentale arranca sotto una montagna di debito pubblico che continua a crescere. E se fosse troppo? Due vicende avvenute in Giappone e negli Stati Uniti hanno preoccupato gli esperti. Al momento di emettere debito, le due grandi potenze economiche hanno registrato un certo scetticismo dei creditori. Niente di catastrofico, certo. I governi sono riusciti a finanziarsi, ma i grandi investitori (fondi pensionistici, assicurazioni sulla vita) erano meno interessati del solito. È successo lo stesso con l’Australia e la Corea del Sud.

Il risultato è un’impennata dei tassi d’interesse a livelli che il mondo non vedeva più da vent’anni. “Il punto non è sapere se c’è troppo debito, ma qual è il prezzo che i mercati sono pronti a pagare per comprarlo”, spiega George Cole, economista della banca statunitense Goldman Sachs. È evidente che gli stati riusciranno a finanziarsi, ma dovranno pagare un prezzo che rischia di essere pesante.

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L’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi in tutto il mondo è spettacolare, soprattutto per i prestiti a lungo termine, cioè con scadenze a trenta o quarant’anni. I tassi statunitensi a trent’anni hanno raggiunto il 5 per cento, il livello più alto dal 2007. In Giappone, un paese dove per molto tempo hanno sfiorato lo 0 per cento, i tassi sono arrivati al 3 per cento. Nel Regno Unito hanno superato per un breve periodo il 5,5 per cento e bisogna tornare agli anni novanta per riscontrare livelli simili. In Francia hanno superato il 4 per cento, un record dal 2012.

Anche i mercati fino a ora solidi cominciano a vacillare. In particolare il più grande di tutti, quello dei buoni del tesoro statunitensi, che in linea di principio dovrebbero essere il bene rifugio per eccellenza. “Si assisterà a un tracollo del mercato delle obbligazioni”, prevede Jamie Dimon, presidente della JP Morgan, la principale banca statunitense. “Succederà, ma non so se sarà tra sei mesi o sei anni”. Raphaël Gallardo, economista capo del gestore di fondi francese Carmignac, lancia l’allarme: “Gli Stati Uniti hanno una politica di bilancio irresponsabile. Non ci sono più protezioni. Il deficit (la quota di spese non coperta dalle entrate) si avvia verso il 7 per cento del pil”. E la Francia, “è in una situazione non molto diversa”, con un deficit del 5,4 per cento previsto per il 2025.

Voci di bilancio

Queste tensioni hanno un effetto diretto sul finanziamento degli stati. Il carico degli interessi sul debito è aumentato per la maggior parte dei paesi occidentali: in media, tra il 2015 e il 2019 si aggirava sul 2,7 per cento nei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse); nel 2023 era salito al 3 per cento e nel 2024 al 3,3 per cento. Il costo del debito supera ormai di quattro o cinque volte le voci di bilancio dedicate alla cultura, all’ambiente o agli alloggi, osserva l’Ocse. È di una volta e mezzo superiore a quello che si spende per la difesa o per il mantenimento dell’ordine pubblico.

Anche il mercato più grande di tutti, quello dei buoni del tesoro statunitensi, comincia a vacillare

Al centro di quest’impennata dei tassi c’è uno squilibrio tra domanda e offerta. Da un lato gli stati si indebitano più che mai: l’aumento è iniziato con la grande crisi finanziaria del 2008 e si è accentuato con la pandemia. E la tendenza non si è fermata con la ripresa della crescita: nel 2024 i 38 paesi dell’Ocse hanno emesso 15.700 miliardi di dollari di debito, un record assoluto. Deficit del 5, del 6 o addirittura del 7 per cento del pil sono diventati comuni. “La cosa insolita è che i deficit sono rimasti alti anche dopo la crisi, la disoccupazione è bassa e la crescita relativamente robusta”, sottolinea Cole.

Di fronte a questa valanga di debito gli investitori cominciano a nutrire sfiducia: per prestare il denaro chiedono rendimenti più alti. Gli attacchi del presidente statunitense Donald Trump all’indipendenza della Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) rientrano in questa inquietudine generalizzata. Gli investitori quindi fanno l’unica cosa logica: lasciano gli Stati Uniti e scelgono il Giappone e l’Europa. Sono meno numerosi quelli che comprano debito statunitense, e quelli che ancora lo fanno chiedono in cambio dei rendimenti più alti.

A questo si aggiunge il ritiro delle banche centrali. A partire dal 2008 questi istituti erano intervenuti molto attivamente sui mercati, comprando a tutto spiano titoli di stato per cercare di far abbassare i tassi d’interesse. L’obiettivo, soprattutto in Giappone e nell’eurozona, era uscire dal rischio della deflazione. Il grande ritorno dell’inflazione nel 2020, alla fine della crisi pandemica e con l’inizio della guerra in Ucraina, ha messo fine a questa politica. Ora le banche centrali hanno smesso di comprare debito e alcune addirittura hanno cominciato a venderlo.

Il quadro è completato infine da un fenomeno puramente finanziario ma essenziale: i fondi pensione e le assicurazioni sulla vita si stanno in parte ritirando. La spiegazione ancora una volta arriva dalle banche centrali. Sempre per lottare contro l’inflazione, queste ultime, oltre a interrompere i loro acquisti di debito, hanno aumentato il costo del denaro. La Banca centrale europea ha portato i suoi tassi da -0,5 per cento nel 2022 a 4 per cento a giugno del 2024, per poi fissarli al 2 per cento. La Fed è passata dallo 0 per cento del marzo 2021 al 5,25 per cento a luglio del 2024, per poi scendere al 4,25 per cento.

All’improvviso gli investitori istituzionali possono comprare titoli di debito a breve termine (con scadenze comprese tra pochi mesi e cinque anni), che offrono dei rendimenti interessanti. Sono decisamente meno interessati al debito di lungo periodo, molto più rischioso. “C’è una perdita di interesse per la parte di debito di lungo periodo”, conferma Kevin Thozet, del fondo Carmignac.

Un diluvio di emissioni di debito, sfiducia negli Stati Uniti, fine dell’attivismo delle banche centrali, ritiro dei fondi pensione: “Tutto questo si traduce in tassi d’interesse più alti per un periodo più lungo”, conclude Cole. Lentamente ma inesorabilmente il peso del rimborso del debito continuerà a crescere. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati