In Italia i presidenti del consiglio non se ne vanno mai del tutto. Alcuni tornano a ricoprire lo stesso incarico, come Giulio Andreotti (sette volte) o Silvio Berlusconi (quattro), altri, come Matteo Renzi, diventano parlamentari e fanno tremare la poltrona del leader di turno esercitando il loro potere con mosse di palazzo. Giuseppe Conte non sa ancora bene quale categoria gli riserverà la storia, dopo essere stato destituito dalla carica di presidente del consiglio con l’operazione Draghi. Ma ha deciso che non vuole tornare a fare lezione all’università né sparire dalla scena politica. Alla fine di febbraio ha messo a punto con Beppe Grillo il suo prossimo passo come leader del Movimento 5 stelle. Un ennesimo cambio nel partito che era arrivato al governo tre anni fa per demolire il sistema e ha finito per diventarne il pilastro principale.

Il Movimento 5 stelle è nato nel 2009 come forza contestataria, contro la casta e dichiaratamente populista. È stato fondato da un comico e da un imprenditore del marketing digitale, Gianroberto Casaleggio. Proclamava il superamento dello schema ideologico tradizionale, promettendo di non allearsi mai con nessun partito per governare. Oggi è l’unica formazione a essersi alleata con tutto l’arco parlamentare (a eccezione di Fratelli d’Italia) e a essere riuscita a fare una fantastica virata ideologica dichiarandosi oggi una forza “moderata e liberale”. Ha vinto le elezioni del 2018 con quasi il 33 per cento dei voti, ma con le sue giravolte ha lasciato un centinaio di parlamentari per strada. Gli ultimi quaranta, tra senato e camera dei deputati, se ne sono andati il giorno dell’investitura di Draghi, quando hanno disubbidito al partito non votando la fiducia al governo. La crisi del partito sembrava inevitabile. Poi Conte ha alzato la mano. L’ex presidente del consiglio, che prima dei cinquestelle votava per il centrosinistra, aveva il 60 per cento di popolarità quando il suo governo è caduto, all’inizio di gennaio. Un capitale che il suo consigliere più vicino, Rocco Casalino, ex portavoce di palazzo Chigi, gli ha consigliato di sfruttare. Il controverso spin doctor ha presentato a Conte due possibilità, dice una persona che ha parlato con lui in quei giorni: “Poteva diventare il punto di riferimento di una sorta di coalizione di centrosinistra, senza bisogno di sporcarsi le mani con il partito. Un po’ come fece Romano Prodi con le forze progressiste alla fine degli anni novanta. Ma una mossa del genere lo avrebbe fatto sparire troppo a lungo dalla scena politica. Nel giro di un mese l’unico Conte che gli italiani avrebbero ricordato sarebbe stato l’allenatore dell’Inter, Antonio
Conte”.

Evoluzione inevitabile

La seconda possibilità, su cui Conte e Grillo si sono messi d’accordo il 28 febbraio in un hotel con vista sui fori romani, era che l’ex presidente del consiglio diventasse il leader della nuova mutazione dei cinquestelle. Una mossa che dovrà essere ratificata dalla base, ma che frenerebbe la perdita di consensi del partito e aumenterebbe la popolarità di Conte. I sondaggi pubblicati negli ultimi giorni danno sei punti in più al Movimento 5 stelle, con Conte come leader. Un aumento che arriverebbe fino al 22 per cento dei voti e che, in parte, si alimenterebbe degli elettori del Partito democratico (Pd). Il deputato cinquestelle Sergio Battelli è convinto che l’evoluzione del partito sia inevitabile: “Non puoi tornare nella stessa legislatura a fare opposizione. È ovvio che manterremo i nostri princìpi, ma dobbiamo rinnovarci completamente. Le idee di dieci anni fa sono state superate dalla storia e altre le abbiamo realizzate. Bisogna passare dalla propaganda ai fatti, mantenendo i princìpi. E in una fase di cambiamento, una figura come Conte è importante”.

Un Movimento 5 stelle forte, con una gestione più democratica, tradizionale e di centrosinistra, come ha chiesto l’ex presidente del consiglio per mettersi a capo di questa nuova versione del partito, potrebbe servire a rafforzare la coalizione con il Pd nelle prossime elezioni amministrative o legislative e competere con il blocco di destra (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia). Ma allo stesso tempo indebolirebbe il centrosinistra e potrebbe sollevare sospetti in vista dell’approvazione dell’altra grande operazione che i cinquestelle stanno portando avanti in Europa.

Non hanno un gruppo al parlamento europeo. Entrando in quello dei socialisti non sarebero più ai margini delle strategie comunitarie

Il partito non fa parte di nessun gruppo al parlamento europeo e da tempo è ai margini delle strategie comunitarie. Il rifiuto del gruppo dei Verdi, che hanno ritenuto poco democratica la loro piattaforma di partecipazione digitale, e l’allontanamento dalle forze antieuropee (per un certo periodo i cinquestelle erano nello stesso gruppo parlamentare con l’Ukip di Nigel Farage) ha condannato il movimento a un ostracismo che potrebbe finire se il Partito socialista europeo accettasse di accoglierli. Ma cosa direbbe il Pd se all’improvviso i cinquestelle diventassero la principale forza di centrosinistra italiana in quella grande famiglia?

Tiziana Beghin, a capo della delegazione europea del Movimento punta sulla convergenza basata sui temi. “Avere a Bruxelles dei deputati che non fanno parte di un gruppo è un male per noi, ma anche per gli italiani: c’è meno possibilità di incidere sui cambiamenti”. Beghin elenca i punti di unità con il Pd: “Siamo una forza politica vicina ai cittadini. Alcuni dei temi più importanti per noi sono l’uguaglianza, il lavoro, la sanità e l’ambiente. Questioni che interessano anche il Pd e i socialisti europei. È il gruppo con cui abbiamo più affinità di voto in questa legislatura: abbiamo votato allo stesso modo nell’80 per cento dei casi. L’esperienza del secondo mandato di Conte ha reso ancora più evidente questa affinità. Inoltre il Pd ha un’identità forte e potrà ricostruire la sua presenza sulla scena”.

In ogni caso, Conte è la chiave di volta per risolvere i gravi problemi dei cinquestelle. D’altro canto, un partito così cambiato sarà il veicolo perfetto se vuole riprendersi la sua poltrona a palazzo Chigi alle prossime elezioni ed entrare a far parte, come vorrebbe, della categoria dei presidenti del consiglio che non se ne vanno mai del tutto.◆ fr

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Questo articolo è uscito sul numero 1400 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati