Ripenseremo a questi anni il giorno in cui “tutti diranno di essere stati contro”, tanto per citare il libro di Omar El Akkad sulle posizioni maggioritarie in occidente rispetto al genocidio di Gaza. E nel pulviscolo di banalità che caratterizzano le nostre giornate dovremo tenere conto di cosa è successo alla nostra idea di consumo, alla paura di perderci i grandi eventi, a come interagire con i musicisti che hanno fatto parte della nostra carta d’identità musicale. Tornano i Radiohead dopo sette anni con un tour in città selezionate come Bologna. Parte del ricavato dei biglietti andrà a Medici senza frontiere, e possiamo immaginare che di fronte alla protesta di un fan che chiede un suo intervento sul genocidio, come è successo a Melbourne nel 2024, Thom Yorke non lascerà il palco innervosito. Dopo essersi espresso su Instagram in modo deludente su Israele e Hamas a maggio, Yorke torna sapendo che per qualcuno questo tour sarà un test sulla sua idea di musica e politica, un ripensare al boicottaggio spirituale contro autoritarismo e capitale che ha innervato parte della carriera della band. Ma che forse, a posteriori, non ha rappresentato la sua parte più sincera. I concerti di Bologna andranno esauriti ma qualcosa vacilla, e forse non è solo colpa degli artisti che faticano a prendere posizione. Sotto a quel palco, toccherà chiedersi se in mezzo allo stato di beatitudine concesso da musicisti immensi, non valeva la pena rinunciare a qualcosa. L’apparente inutilità di migliaia di gesti individuali diventa mai un modo efficiente per essere contro? ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati