L’ennesima crisi politica italiana ha richiesto una soluzione in linea con la storia del paese degli ultimi trent’anni: l’aiuto di un tecnico, che restituisca credibilità a un sistema politico screditato. Questa storia è cominciata nella prima metà degli anni novanta con Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, due dirigenti della Banca d’Italia. L’Italia stava vivendo una transizione storica segnata dalla fine del pentapartito (le ampie coalizioni di governo che caratterizzarono la politica italiana per tutti gli anni ottanta), dagli effetti del processo Mani pulite e dalla riforma elettorale. Nella seconda parte della storia ha assunto un ruolo centrale un sistema dei partiti in cui erano le caratteristiche dei leader a influenzare il dibattito. Il clima era meno propenso alle grandi riforme e più ai giochi di palazzo di politici come Silvio Berlusconi o Matteo Renzi (due personalità che hanno più cose in comune di quanto sembri). La terza parte ha segnato il ritorno dei tecnici alla guida del paese, e allo stesso tempo ha rafforzato l’idea che andare alle urne sia superfluo, inopportuno o addirittura un elemento di disturbo dell’apparente stabilità.
Dopo la grande crisi del 2008 l’Italia ha votato tre volte ma ha avuto sei presidenti del consiglio, di cui quattro consecutivi (Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni) sono stati frutto di accordi parlamentari dalla geometria variabile, in un contesto di frammentazione dei partiti che è comune a molti altri paesi europei. Per di più le elezioni del 2018 non hanno portato alla guida del governo il leader di uno dei partiti più votati (il Movimento 5 stelle e la Lega), ma uno sconosciuto professore universitario, Giuseppe Conte. Questo significa che la soluzione Draghi (un altro ex governatore della Banca d’Italia) non è una novità politica o qualcosa di insolito per la storia del paese, ma solo il corollario di una ricetta che mostra quant’è complesso il labirinto in cui l’Italia si è persa.
Le caratteristiche della situazione italiana sono note e riguardano anche altri paesi: una stagnazione economica prolungata, profonde disparità tra le regioni, una perdita di competitività economica nel mondo e un eccesso di burocrazia, per non parlare di una classe politica anziana, troppo numerosa e attaccata ai propri privilegi. A questo si sono aggiunte man mano nuove crisi (euro, immigrazione, pandemia) che hanno fatto emergere una gestione politica erratica e la sensazione che l’Italia sia stata abbandonata dagli alleati europei, favorendo l’affermazione dell’estrema destra, che alcuni sondaggi danno al 40 per cento.
Questo potrebbe spiegare in parte perché il presidente della repubblica Sergio Mattarella ha preferito evitare le elezioni anticipate. Il voto sancirebbe probabilmente il trionfo della Lega di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che, a prescindere dalla possibilità di cannibalizzarsi reciprocamente a livello elettorale, si sentirebbero legittimati dalla supremazia parlamentare in un momento critico per il futuro del paese. La seconda ragione della scelta di Mattarella è legata alla difficoltà di organizzare il voto durante la nuova ondata pandemica, anche se altri paesi hanno già dimostrato che è possibile votare in sicurezza.
Ma la questione fondamentale oggi è che Roma deve presentare a Bruxelles entro aprile un piano strategico se vuole ricevere il più grande pacchetto di aiuti finanziari negoziato tra i paesi dell’Unione europea (200 miliardi di euro tra prestiti e sovvenzioni).
In Italia, come in Portogallo, l’entusiasmo suscitato dai salvatori della patria è un fenomeno ciclico
Imbattibile
Uscito di scena Conte, di fronte a una maggioranza spaccata e senza una figura in grado di suscitare la fiducia necessaria, Draghi appare imbattibile in quanto a credibilità ed europeismo, tanto che a Roma il suo nome circolava ormai da tre o quattro anni come ipotesi alternativa. Sul Corriere della sera Mario Monti ha scritto che Draghi “non ha il crisma dell’urna, ma ha il carisma di una vita”. La carriera dell’economista (Banca centrale europea, Goldman Sachs, Banca mondiale, Banca d’Italia, dipartimento del tesoro italiano, Sapienza, Mit) è considerata ideale per ottenere la fiducia dei mercati (come già si è visto) e delle istituzioni europee. Il problema non sono questi ragionamenti, ma le condizioni di governabilità. Per giorni Draghi ha trattato con una quindicina di partiti per valutare gli appoggi, le esigenze e il tipo di governo che potrebbe creare. Il sostegno di alcune forze è garantito, ma quello (decisivo) di altre è meno scontato. Per esempio i cinquestelle devono valutare gli eventuali danni elettorali – che già s’intravedono nei sondaggi – mentre la preoccupazione di Salvini è di lasciare a Fratelli d’Italia, un partito ancora più a destra della Lega, il monopolio dell’opposizione. Tutti, senza eccezioni, vogliono capire come saranno gestiti i miliardi europei.
Oltre alle dichiarazioni di sostegno, Draghi ha dovuto valutare due elementi in questa fase di trattative. Per prima cosa deve stabilire quanto tempo avrà il nuovo governo per indirizzare i fondi europei verso riforme imprescindibili e urgenti, e se questo ridurrà lo spazio dei partiti antisistema. E farà bene a tener presente che in media i governi tecnici in Italia durano un anno e quattro mesi, in questo caso più o meno fino alle prossime elezioni in programma per il 2023. In secondo luogo deve valutare se formare un governo con figure estranee ai partiti, libere da tatticismi, o un esecutivo misto, con ministri particolarmente bravi nel dialogo parlamentare. Questa seconda ipotesi non è implausibile se si pensa a quello che fece Ciampi.
Questo significherebbe attribuire a Draghi qualità politiche che sicuramente ha, ma di cui non ha ancora dato prova in una situazione così delicata. Una cosa è salvare l’euro al timone di un’istituzione potente e coesa come la Bce, un’altra è portare in salvo un paese in attesa di risorse e circondato da mille squali.
Con l’attenzione che merita
In Italia, come in Portogallo, l’entusiasmo suscitato dai salvatori della patria è un fenomeno ciclico. Di solito si sviluppa dall’esterno verso l’interno del sistema, e prende il via da osservatori più o meno complici, con casse di risonanza nei mezzi d’informazione e affezionati alle tesi più apocalittiche, un sintomo della sfiducia che questi osservatori nutrono per il funzionamento della democrazia. Come dimostra il caso italiano, una volta creato un precedente è difficile chiudere la porta. E in ogni caso è evidente che queste soluzioni non sono riuscite ad allontanare dalla politica le sue maledizioni, a correggere regole o percorsi, a colmare le disuguaglianze sociali e territoriali, a migliorare la competitività economica, a garantire una maggiore trasparenza negli incarichi pubblici, a calmare in modo permanente i mercati o a mitigare gli impulsi antisistema. È importante quindi non cedere alla tentazione e lasciare che la democrazia funzioni in modo corretto.
Ma in questo momento è altrettanto importante non perdere tempo e correggere alcuni comportamenti, responsabilizzare i vertici, ponderare le decisioni, preparare politiche pubbliche, governare dando l’esempio, assegnare in modo più efficace gli incarichi, migliorare il rapporto tra stato e privati, salvaguardare il dialogo intergenerazionale, prendersi cura dei più anziani e dei più giovani, e osservare il paese con l’attenzione che merita.
Usando correttamente i fondi europei e percorrendo con coraggio questa strada, si potrà migliorare la democrazia senza bisogno di salvatori, ma grazie al contributo di tutti. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati