Il 19 agosto la chiesa di Kiruna ha lasciato il suo posto per essere spostata di cinque chilometri. Non dimenticherò mai il silenzio mentre scivolava lentamente lungo la collina, con la montagna scura della miniera sullo sfondo. Non dimenticherò mai nemmeno che la compagnia svedese Lkab (proprietaria della miniera di ferro che ha provocato lo spostamento della chiesa) aveva meticolosamente organizzato per l’occasione una “festa popolare”, pur sapendo che una settimana dopo avrebbe schiacciato Kiruna: panini, gelati, musica e migliaia di persone in fila per un caffè offerto in una tazza commemorativa. I giornalisti, con gilet che sfoggiavano il logo dell’Lkab, ascoltavano discorsi trionfali sull’ingegneria e l’efficienza della miniera.

Ma molti di noi camminavano accanto alla chiesa del 1912 con un nodo alla gola, addolorati per un altro pezzo del panorama di Kiruna che andava perduto. Ci fotografavamo davanti all’edificio mentre passava accanto ai luoghi della nostra infanzia. Cercavamo di consolarci, dicendo che forse non sarebbe stato male avere la chiesa accanto al cimitero. Nessuno si aspettava che il peggio dovesse ancora venire.

La settimana dopo l’amministratore delegato dell’Lkab Jan Moström ha mostrato una mappa delle prossime modifiche: 2.700 abitazioni da demolire, seimila persone che avrebbero dovuto lasciare le loro case, oltre alle seimila già trasferite. Due terzi di Kiruna da abbattere. Numeri che tolgono il fiato. Da quanto tempo l’Lkab nascondeva queste informazioni?

Ho seguito la mappa con il dito: le strade della mia infanzia, le palestre, i campi sportivi, le case di amici e parenti. Tutto destinato a sparire. Kiruna ha già fatto sacrifici enormi per il resto della Svezia, e la città continua a svuotarsi. I miliardi guadagnati dalla miniera vengono investiti altrove. Qui restano le macerie: edifici abbattuti, l’ospedale senza chirurgia d’urgenza né maternità, scuole e servizi senza personale perché molti scelgono gli stipendi della miniera. Mancano abitazioni, il comune non possiede terreni e altre seimila persone dovranno trovare un posto dove vivere. Anche le comunità sami vedono i loro pascoli ridursi ancora.

Calcoli sbagliati

Molti si chiedono perché gli abitanti accettino. Come se ci sia mai stata una possibilità di scelta. Vivere all’ombra della miniera ha segnato tutti noi. Mio padre partecipò allo sciopero del 1969–1970 per salari e condizioni di lavoro migliori. Nel 1973 la mia famiglia fu costretta a lasciare il quartiere vicino alla miniera, a rischio crolli. Nel 2017 ho visto la mia vecchia casa demolita dalle ruspe, e poi il municipio e alcuni edifici progettati dall’architetto Ralph Erskine. Ora la chiesa, 34 metri d’altezza e 672 tonnellate di legno, ha lasciato il centro. Ma forse questa volta l’Lkab ha sbagliato i suoi calcoli, credendo che gli abitanti avrebbero chinato il capo come sempre, ripetendo il mantra: niente miniera, niente Kiruna. La compagnia dà per scontato il consenso, ma il prezzo pagato dagli abitanti è troppo alto. Per quanto ancora lo stato potrà mantenere questo atteggiamento coloniale? Per quanto tempo Kiruna dovrà contribuire con miliardi di corone e ricevere quasi nulla in cambio?

Scrivo spesso di Kiruna, anche se non vivo più lì. È la mia casa: da bambina temevo che senza la miniera la città scomparisse. Ora temo che sia la miniera a inghiottirla. Non dimenticherò mai questi giorni di agosto. Il luogo dove la chiesa era stata costruita, un tempo area di sosta per i pastori di renne, oggi è solo un piazzale di ghiaia. Qualcuno dice che la natura si riprenderà ciò che è suo. Ma no: è lo stato che prende. E non sono così sicura che questa volta resteremo in silenzio. ◆sm

Ann-Helén Laestadius è una scrittrice e giornalista di origini sami. Il suo ultimo libro uscito in italiano è “La ragazza con le renne” (Marsilio 2024).

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Questo articolo è uscito sul numero 1630 di Internazionale, a pagina 31. Compra questo numero | Abbonati