Immaginate un mondo in cui le donne non hanno il diritto di parlare o di mostrare il proprio volto in pubblico, non possono uscire di casa senza essere accompagnate o studiare.
Questa è la realtà che si vive nel 2025 in Afghanistan. Ed è la vita che per anni ha conosciuto anche Metra Mehran, un’attivista afgana in esilio negli Stati Uniti dal 2021, quando le truppe statunitensi hanno lasciato l’Afghanistan e i taliban sono tornati a controllare il paese e hanno inserito il suo nome nelle liste dei condannati a morte. Da allora lavora quotidianamente per far riconoscere e inserire nella legislazione internazionale il concetto di “apartheid di genere”, il sistema che discrimina le donne sul piano, sociale ed economico.
Nel mese di marzo Metra ha cercato di parlare il più possibile della campagna End gender apartheid today, a cui contribuisce insieme ad altre attiviste afgane e iraniane. La loro lotta è essenziale, perché è impossibile celebrare le donne o parlare dei loro diritti senza pensare a quanto soffrono in Afghanistan.
Mehran aveva nove anni nel 2001 quando il regime dei taliban crollò in seguito all’intervento militare degli Stati Uniti, arrivati nel paese dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 con l’obiettivo di catturare il terrorista Osama bin Laden. I taliban, però, si rifiutarono di consegnare bin Laden, identificato da Washington come la mente dietro l’11 settembre.
Mehran è cresciuta in una famiglia attenta all’istruzione: ha potuto andare a scuola e all’università, per poi trasferirsi nella capitale Kabul e continuare gli studi in relazioni internazionali.
“Ho sempre avuto uno spirito da attivista, fin dal liceo, e anche più tardi, all’università. In quel periodo sono cambiate molte cose”, racconta in videochiamata. Parla in fretta perché deve uscire per intervenire a un incontro sull’apartheid di genere. “All’inizio gli Stati Uniti assicuravano che il femminismo e i diritti delle donne avrebbero avuto un posto di primo piano nel dibattito pubblico, ma alla fine ci hanno escluso da tutti i processi decisionali”.
Secondo Mehran sono molti i fattori che hanno modellato l’Afghanistan attuale, sia sul piano sociale sia su quello politico. Le divisioni etniche e linguistiche giocano un ruolo importante, così come la discriminazione e la concentrazione del potere in mano a un solo gruppo. Ma anche l’influenza dei paesi stranieri è stata importante, sostiene l’attivista. “Mi assumo la responsabilità di molti dei nostri fallimenti, ma allo stesso tempo non posso non dare la colpa alla comunità internazionale, perché ha affidato il potere a chi non capiva niente della cultura afgana. Hanno scelto persone statunitensi ed europee e le hanno messe a fare i ministri qui in Afghanistan, anche se non avevano alcun legame con il territorio”. Uno dei ministri dell’economia non parlava né farsi né pashtu, le due principali lingue afgane. Eppure ha avuto l’incarico, perché così avevano deciso i paesi occidentali.
È preoccupata, perché oggi c’è il rischio che le donne afgane non siano più al sicuro nemmeno nei paesi dove credevano di aver trovato rifugio
Le storie delle altre
Da bambina Metra Mehran non riusciva a capire bene queste dinamiche, ma con il tempo ha cominciato a rendersi conto della situazione. Ad aiutarla sono state le testimonianze di chi aveva vissuto durante il primo regime dei taliban, durato dal 1996 al 2001. Da questi racconti ha imparato tanto.
L’Afghanistan contemporaneo ha un passato molto turbolento, con una fase di occupazione sovietica (dal 1979 al 1989) seguita da un lungo periodo d’instabilità e guerra civile, culminato con l’arrivo al potere dei taliban. Poi c’è stato l’intervento statunitense e in seguito di nuovo i fondamentalisti islamici.
In tutti questi anni a soffrire di più sono state proprio le donne, che però non hanno mai smesso di lottare per i loro diritti. Ne avevano di più negli anni sessanta rispetto a oggi. Nel 1964 era stata adottata una costituzione che poneva l’accento anche sulla questione femminile. Dopo l’ingresso delle truppe sovietiche nel paese, nel dicembre 1979, furono fatti diversi passi avanti per quanto riguarda l’accesso all’istruzione e al lavoro. Ma le donne continuarono a essere vittime di violenza domestica, oppressione e repressione politica.
Terminata la fase del controllo russo, il potere se lo sono conteso per anni le varie fazioni dei mujaheddin, i guerriglieri islamici che avevano combattuto i sovietici. Le donne persero anche i pochi diritti conquistati nel periodo comunista e furono costrette a indossare il burqa, l’abito che copre integralmente viso e corpo. Per uscire di casa dovevano essere accompagnate da un uomo.
Il primo regime dei taliban (dal 1996 al 2001) gli impedì di lavorare o studiare. “Per definire la situazione in cui si trovavano, alcune afgane avevano coniato il concetto di apartheid di genere, che però non era codificato nel diritto internazionale”, spiega Mehran. “Spesso mi chiedo: se quella definizione fosse stata integrata nel diritto internazionale già tra il 1996 e il 2001, oggi ci troveremmo a dover rivivere la stessa storia?”.
Dopo la precipitosa partenza delle truppe statunitensi da Kabul nell’agosto 2021 i taliban hanno redatto liste di persone che il loro regime aveva condannato a morte. Tra loro c’era chi aveva collaborato con gli americani per gettare le basi di un nuovo Afghanistan più giusto, obiettivo in cui credevano anche molte attiviste.
Il nome di Metra Mehran era nella lista nera dei taliban. “È stato un momento complicato”, racconta. “Erano in corso i negoziati di pace. Avevano già ucciso molti dei miei amici, in gran parte attivisti. Ho perso anche mio cugino. In quel periodo hanno perfino attaccato la nostra casa. Ero quasi intorpidita, cercavo solo di sopravvivere, di resistere in qualche modo a quella situazione. La condanna a morte non era nemmeno il mio primo pensiero, perché ogni giorno vedevo i miei amici scomparire. L’unica cosa a cui pensavo era riuscire a dire addio ai miei cari ogni mattina perché non sapevo se sarei tornata a casa la sera”.
Alla fine Mehran è riuscita a lasciare l’Afghanistan con l’aiuto della A&M university Bush school del Texas, dove aveva studiato in passato, e dei servizi segreti statunitensi. Da allora vive in esilio, ma s’impegna per cambiare la situazione delle donne in Afghanistan. Ora concentra i suoi sforzi sul riconoscimento nel diritto internazionale del concetto di apartheid di genere. Per monitorare gli abusi sui diritti umani e delle donne in Afghanistan collabora con Amnesty international e mantiene contatti diretti con le vittime di segregazione.
È importante usare il concetto di apartheid di genere per definire la situazione in Afghanistan, afferma Mehran. I taliban sono un gruppo fondamentalista, e la loro filosofia si basa sull’oppressione delle donne, che considerano fonte di peccato e tentazione, e per questo devono essere controllate. “Questo lavaggio del cervello comincia già nelle scuole religiose. La discriminazione diventa poi la politica ufficiale del governo, che punta a manipolare la società fino a sottometterla del tutto. Questo è l’unico modo in cui i taliban possono sperare di sopravvivere; altrimenti sono spacciati”.
Anche se il governo dei fondamentalisti non è riconosciuto al livello internazionale, di fatto controlla il paese. Da quando hanno preso il potere, i taliban hanno emesso più di 180 decreti, che per circa il 95 per cento riguardano i diritti delle donne. Dal punto di visto del diritto, l’unica autorità è il leader, chiamato Amir al Muslimeen (il comandante di tutti i credenti). Le sue parole sono legge, che siano scritte o solo pronunciate.
Tra i provvedimenti più recenti c’è l’ordine di costruire le case senza finestre che affaccino su luoghi normalmente frequentati dalle donne. Sarebbe “osceno” per i taliban vedere una donna mentre lavora in cortile, in cucina o prende l’acqua dal pozzo. “Sul nostro sito monitoriamo i decreti emessi dai fondamentalisti. Il ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio li applica con la violenza. Un esempio: se una donna esce di casa per comprare da mangiare o medicine senza un accompagnatore di sesso maschile, oppure se non è vestita secondo il codice imposto dal regime, rischia di essere arrestata, torturata o perfino uccisa”, spiega Mehran.
Le chiedo se le donne ricevono lo stesso trattamento anche dentro casa o se esiste una qualche forma di solidarietà familiare per proteggerle. Mi spiega che le leggi valgono nello spazio pubblico come in quello privato. Per esempio, se una donna esce di casa senza l’accompagnamento di uno dei suoi familiari maschi, anche questi ultimi possono essere puniti con la reclusione da uno a tre giorni. “È una forma d’ingegneria sociale. Se mio padre o mio fratello sanno che anche loro potrebbero essere puniti per come mi vesto, finiranno per costringermi a seguire le regole”, continua Mehran.
Abusi nascosti
Secondo un rapporto del 2015 dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), in Afghanistan il 90 per cento delle donne dichiara di aver subìto violenze domestiche; il 17 per cento è stato vittima di violenza sessuale e il 52 per cento di violenza fisica. Le leggi in vigore non fanno che rafforzare l’oppressione. “Immaginate una donna vittima di violenza domestica. In base a queste norme, non può nemmeno andare dal medico o uscire per comprarsi le medicine”, continua Mehran.
◆ 1992 Nasce nella provincia di Badakhshan, nel nordest dell’Afghanistan
◆ 2011 S’iscrive all’università statunitense a Kabul.
◆ 2016 Frequenta un master alla A&M University Bush school del Texas.
◆ 2021 I taliban la inseriscono nelle loro liste delle persone condannate a morte. Decide di lasciare il paese e va in esilio negli Stati Uniti.
◆ 2024 Comincia a collaborare con Amnesty international per difendere i diritti delle donne in Afghanistan e nel resto del mondo.
Un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che i taliban mettono in prigione le donne che dichiarano di essere state vittime di violenza domestica e che non hanno parenti maschi con cui vivere. Il regime ha spiegato ai rappresentanti dell’Onu che per risolvere i casi di violenza domestica “si affida alla legge della sharia. In questo modo gli abusi contro le donne semplicemente smettono di esistere”.
Mehran sottolinea che le donne afgane non sono solo bersagli di discriminazione di genere, ma vittime di un intero sistema. “Quello che rende la situazione ancora più grave è che questo sistema è tanto ideologico quanto pragmatico. Ed è essenziale per la sopravvivenza stessa dei taliban”, continua l’attivista.
In questo contesto Mehran, insieme ad altre donne afgane e iraniane, si batte affinché l’apartheid di genere sia riconosciuto come reato al livello internazionale. Se si applica il criterio del genere e non dell’appartenenza etnica, si arriva comunque allo stesso risultato: segregazione, ingiustizia, oppressione. Per questo le attiviste chiedono di allargare la definizione. Sarebbe un passo avanti molto importante, perché il riconoscimento formale dell’apartheid di genere creerebbe un quadro giuridico capace di comprendere tutti i reati e gli abusi compiuti oggi in Afghanistan.
La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) aiuta le attiviste a fare pressioni sulla Corte penale internazionale (Cpi), che è abilitata a perseguire casi simili, come dimostrano i due mandati di arresto per altrettanti leader taliban emessi dall’ufficio del procuratore. Ma non basta. “Questo riconoscimento non creerebbe solo degli obblighi per i taliban, ma darebbe anche agli altri stati la responsabilità di fare in modo che simili reati non siano più commessi. Questo è molto importante, perché è difficile condannare i taliban per le loro azioni”, continua Mehran. “Non vogliamo colpire solo i taliban, ma anche tutti gli altri paesi che mantengono rapporti normali con il regime. In questo modo anche loro sarebbero sottoposti a obblighi giuridici”.
Metra è preoccupata, perché oggi c’è il rischio che le donne afgane non siano più al sicuro nemmeno nei paesi dove credevano di aver trovato rifugio.
Subito dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, il presidente statunitense Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo che sospende il programma federale di assistenza per i rifugiati. Il provvedimento ha di fatto fermato i voli che avrebbero dovuto portare circa 1.600 profughi afgani negli Stati Uniti, secondo quanto ha scritto lo Zan Times, una pubblicazione che si occupa dei diritti umani in Afghanistan. Maryam, una delle afgane intervistate dalle giornaliste di Zan Times, ha raccontato che non si sentiva così impotente dal 2021, l’anno in cui i taliban hanno ripreso il controllo del paese. Il provvedimento di Trump impedirà a duecentomila profughi afgani di lasciare il posto dove sono nati per trovare rifugio altrove.
Mehran è convinta che la regressione dei diritti delle donne rischi di allargarsi anche ad altre parti del mondo. E quando la cosa diventerà ancora più evidente, sottolinea, ci pentiremo di aver sopportato per troppo tempo le atrocità commesse dai taliban contro le donne afgane. “Il trionfo dei taliban sta incoraggiando e rafforzando altre milizie e organizzazioni terroristiche in tutto il mondo. È evidente. Dopo il loro ritorno al potere, i provvedimenti di tipo fondamentalista approvati dai gruppi religiosi di tutto il pianeta sono aumentati considerevolmente. Lo vediamo per esempio in Siria, o anche in Iraq, con i matrimoni precoci”, continua l’attivista.
Il fenomeno non si limita ai paesi mediorientali, anzi è in crescita perfino in alcuni stati europei. Pochi mesi fa una donna afgana in esilio in Francia ha criticato pubblicamente la squadra nazionale di cricket del suo paese, che simpatizza con i taliban. Ha ricevuto così tante minacce da essere messa sotto protezione dalla polizia.
Un obiettivo
Prima di concludere la nostra conversazione, mi racconta come ha lasciato il paese nel 2021. Mi confessa che ripensa molto raramente a quei momenti: allora doveva semplicemente pensare a sopravvivere. Però sapeva già che il suo obiettivo era battersi contro l’apartheid di genere. Non da sola, ma insieme a tutte le altre donne che da allora si sono unite alla sua battaglia.
“Mentre il governo statunitense cercava di spiegarci che i taliban erano cambiati, noi sapevamo che non era vero”, conclude. “Gli dicevamo: ‘Dateci retta, non è così. Noi li conosciamo da anni, abbiamo vissuto al loro fianco’. Ma non ci hanno mai ascoltate”. ◆ mt
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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati