Nel centro della capitale etiope Addis Abeba sorge un nuovo museo da 35 milioni di dollari, costruito dai cinesi, che commemora la vittoria dell’Etiopia sulle forze coloniali italiane nella battaglia di Adua del 1896. Eppure, sulla stessa strada, c’è una scuola tappezzata d’immagini di Dante Alighieri in pieno fermento per i nuovi corsi. Questi fanno parte del piano Mattei, un’iniziativa da 5,5 miliardi di euro voluta dalla presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni per rilanciare i rapporti con il continente e ridurre i flussi migratori irregolari verso l’Europa attraverso il Mediterraneo.

Il governo guidato da Meloni, che è andato al potere promettendo di fermare l’immigrazione clandestina, è stato duramente criticato dalle associazioni per i diritti umani a causa della sua linea dura, che prevede di ostacolare le organizzazioni umanitarie impegnate nel salvataggio dei migranti in pericolo e di stringere accordi con brutali forze di polizia nordafricane per fermare le imbarcazioni di migranti prima che partano. Ma Meloni ha detto di voler anche affrontare i problemi che spingono gli africani a lasciare i loro paesi, a cominciare dalla mancanza di opportunità economiche. L’anno scorso, presentando il piano Mattei, ha sostenuto che i giovani africani dovrebbero avere “il diritto a non dover emigrare” alla ricerca di una vita migliore.

In una recente intervista al Financial Times, la presidente del consiglio italiana ha dichiarato che l’Europa ha sbagliato a sottovalutare la rilevanza strategica dell’Africa e il suo potenziale economico, legato alla disponibilità di terre coltivabili, ricchezze minerarie e giovani. “L’Italia ha la testa nel centro dell’Europa e un piede nel Mediterraneo, dunque è un ponte naturale tra Europa, Africa e Medio Oriente”, ha sottolineato Meloni. “Penso che per l’Europa e l’occidente sia una questione strategica. Quello che succede in Africa avrà ripercussioni anche da noi”.

Mentre i principali paesi donatori di aiuti (in particolare, Stati Uniti e Regno Unito) stanno tagliando i fondi, l’Italia finanzia iniziative in quattordici paesi africani. I progetti vanno dai 320 milioni di euro per il corridoio di Lobito, una linea ferroviaria che collega le miniere di rame della Repubblica Democratica del Congo a un porto in Angola, a piccoli investimenti nello sviluppo del capitale umano, come i corsi di formazione.

Lo sforzo dell’Italia per diventare più influente in Africa arriva mentre il ruolo della Francia nel continente vive una crisi profonda

Atteggiamenti da evitare

Nella scuola italiana di Addis Abeba una ventina di giovani segue un corso gratuito di due anni per diventare tecnico specializzato, nella speranza di trovare lavoro in Etiopia o forse anche in Italia. Le aziende italiane devono affrontare una carenza di manodopera dovuta all’invecchiamento della popolazione. L’iniziativa italiana è quindi una fonte di speranza per i ragazzi come Eyob Hailemichael, convinto che il corso lo aiuterà a ottenere “un reddito soddisfacente e competenze utili”.

Anche se il governo italiano vorrebbe che l’Africa diventasse un polo energetico per l’Europa (anche grazie alle fonti rinnovabili), nel 2024 Meloni ha promesso che l’Italia non cederà a un “atteggiamento predatorio e paternalistico”. “Spesso commettiamo l’errore di dare lezioni agli altri e di considerarci migliori, ma non è il modo giusto per cooperare”, ha detto al Financial Times. “Abbiamo l’opportunità di abbinare gli interessi degli uni e degli altri”. Lo sforzo dell’Italia per diventare più influente in Africa arriva nel momento in cui la Francia (criticata spesso da Meloni per l’atteggiamento paternalistico verso le ex colonie) vive una profonda crisi nel continente. I soldati francesi sono stati cacciati da varie ex colonie attualmente governate dai militari, come il Niger e il Mali. Negli ultimi mesi le truppe di Parigi sono state invitate “amichevolmente” a togliere il disturbo anche dalla Costa d’Avorio e dal Senegal. In interviste e apparizioni pubbliche del passato (compreso un video polemico girato nel 2018 al confine tra Francia e Italia) Meloni ha attaccato il presidente francese Emmanuel Macron e in particolare la promozione del franco cfa in diversi paesi africani, parlando a più riprese di “sfruttamento e neocolonialismo”.

Meloni non è la prima leader italiana a considerare l’Africa un continente cruciale per raggiungere i propri obiettivi. Alla fine dell’ottocento l’Italia appena unificata cominciò gradualmente a prendere il controllo della Libia e dell’Eritrea. Nel 1936 Roma proclamò la nascita dell’Africa Orientale Italiana, di cui facevano parte anche l’Etiopia e la Somalia, in un’invasione coloniale breve ma sanguinosa che si concluse con la sconfitta di Benito Mussolini nella seconda guerra mondiale.

Oggi, oltre alla cooperazione per lo sviluppo prevista dal piano Mattei, il governo di Meloni continua a coltivare i rapporti con alcuni regimi africani discutibili. Di recente è finito nell’occhio del ciclone per aver scarcerato Osama Almasri, un noto signore della guerra libico, ricercato dalla Corte penale internazionale per omicidio, riduzione in schiavitù e stupro dei migranti imprigionati nei centri di detenzione libici.

I tentativi di Roma di rafforzare i legami con i paesi del Sahel hanno creato tensioni con gli alleati. In Niger, dove le truppe francesi sono state espulse nel 2023 dopo il colpo di stato contro il presidente alleato dell’occidente, l’Italia non ha rinunciato a collaborare con le nuove autorità, mantenendo una presenza militare per l’addestramento delle forze speciali nigerine, insieme agli istruttori turchi e russi. L’Italia ha fatto pressione sull’Unione europea ottenendo il prolungamento di una missione di addestramento della polizia in Mali (altro paese governato da una giunta militare) che avrebbe dovuto concludersi a gennaio.

Gli italiani “vogliono espandersi nella regione”, spiega Ulf Laessing, che lavora nella sede della Fondazione Konrad Adenauer nella capitale maliana Bamako. “La loro preoccupazione principale sono i flussi migratori. Vogliono mantenere buoni rapporti, anche a costo di sacrificare il rispetto dei diritti umani e le riforme democratiche. Per loro è una questione di realpolitik”.

Le iniziative italiane per lo sviluppo hanno ricevuto apprezzamenti. “Se grazie agli investimenti italiani si apriranno nuove opportunità per i giovani e le donne, allora sicuramente avranno meno incentivi a emigrare”, osserva un funzionario etiope, convinto che rispetto ad altri paesi occidentali gli italiani “conoscano meglio” le dinamiche del Corno d’Africa.

Ricino amaro

Ma non tutto è andato secondo i piani. In Kenya la Banca mondiale e il governo italiano hanno sviluppato un progetto congiunto da 210 milioni di euro (75 milioni dei quali versati da Roma) per convincere centinaia di migliaia di agricoltori a coltivare il ricino da trasformare in biocarburante per conto dell’azienda energetica italiana Eni. Il piano Mattei, tra l’altro, prende il nome dal fondatore dell’Eni, Enrico Mattei. Tuttavia, il progetto pilota condotto nel villaggio di Mbegi ha fatto scoppiare una rivolta tra i coltivatori, quando non hanno visto materializzarsi i ricavi promessi di 70mila scellini keniani per acro (480 euro). L’agricoltore Francis Kagiri dichiara di aver guadagnato appena 140 scellini, meno di un euro, perché aveva ricevuto i semi sbagliati. Dato che il raccolto non gli ha fruttato “quasi nulla”, Kagiri è stato costretto a vendere le sue vacche per sfamare la famiglia.

L’Eni ha risposto che gli agricoltori insoddisfatti “non sono statisticamente rappresentativi” e che il progetto dà buoni risultati. In ogni caso, anche se tutto andasse secondo i piani, alcuni diplomatici italiani in Africa si chiedono se davvero l’Italia possa arginare la pressione migratoria di un continente con 1,5 miliardi di abitanti, che secondo alcune stime potrebbero raddoppiare entro il 2050. “Questa retorica funziona con la base di destra di Meloni, ma non c’è un piano Mattei che possa fermare l’emigrazione”, spiega un diplomatico con tono scettico. “Gli italiani non sembrano rendersi bene conto del boom demografico africano”. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati