“E indispensabile essere uniti contro le discriminazioni, costruire dei progetti, far emergere istituzioni, estetiche e culture afroeuropee”. Questo appello lanciato da Léo­nora Miano nelle pagine del suo saggio Afropea (Grasset 2020) sembra essere stato seguito da un’intera generazione di afroitaliani.

Hanno tra i venti e i quarant’anni. Sono artisti, cantanti, professori universitari o scrittori neri. E il loro attivismo in un paese che vive crisi politiche continue e dove la questione migratoria è regolarmente strumentalizzata, mette in discussione il rapporto dell’Italia con la sua storia coloniale e postcoloniale.

Stanchi di essere emarginati

Le loro opere documentano cosa significa essere una minoranza. La loro parola rivela i pregiudizi, mette in evidenza gli stereotipi di un’Italia che si è atrofizzata in una sequenza di governi populisti. Attingendo alle storie familiari, basandosi sulle riflessioni di teorici del postcolonialismo, primo tra tutti il filosofo Achille Mbembe, questa nuova generazione di afroitaliani, stanca di essere emarginata, prende la parola e passa all’azione.

Dalla giovane saggista di origine nigeriana Oiza Queensday Obasuyi, che descrive il razzismo sistemico in un libro che ha fatto molto parlare, ad Antonio Dikele Distefano, poliedrico personaggio di origine angolana che ha firmato una serie che sarà disponibile su Netflix. Ecco cinque ritratti di questo “panorama afroitaliano”. Persone creative e impegnate, che contribuiscono allo sviluppo culturale del loro paese. ◆ adr

**Antonio Dikele Distefano**

A 28 anni vanta una carriera invidiabile: romanzi, trasmissioni musicali e una rivista

Antonio Dikele Distefano (Andrea Bianchera)

Antonio Dikele Distefano, scrittore e sceneggiatore, è un personaggio poliedrico. Dalla pubblicazione del suo primo romanzo ha inanellato un successo dopo l’altro. “Un giorno”, spiega Distefano, “ho deciso che ne avevo abbastanza di aspettare che la società italiana mi facesse posto alla sua tavola, e così con i miei amici ho costruito la mia tavola”. Da allora non si è più fermato.

Nato in Italia da genitori angolani, Distefano ha 28 anni ma può già vantare una carriera invidiabile: cinque romanzi, tra cui uno vincitore di un premio Fiesole; due trasmissioni musicali; una rivista online, Esse, lanciata nel 2016 e diventata poi il canale Youtube Basement Cafè (23 milioni di visualizzazioni in due anni); dei ritratti per la rete televisiva LaEffe; una serie Netflix, Zero, che uscirà il 21 aprile. “Netflix non deve essere il punto di arrivo della mia carriera”, spiega Distefano. “Da sempre la caratteristica di tutti i miei progetti è la perseveranza. Sono un perfezionista, studio molto. Prima di lanciarmi in un progetto cerco d’imparare il più possibile”.

La storia di Antonio Dikele Distefano comincia in Africa. Negli anni ottanta suo padre e sua madre fuggirono dalla guerra civile in Angola e trovarono rifugio nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire), riuscendo poi ad arrivare in Svizzera e infine in Italia. Lui è nato a Busto Arsizio e cresciuto a Ravenna, i suoi genitori avevano un negozio di generi alimentari, un african market, ma i tempi erano duri. Licenziamento, disoccupazione, lavori saltuari, i Distefano hanno conosciuto la precarietà: in diverse occasioni la famiglia è stata sfrattata perché non riusciva a pagare l’affitto. Le difficoltà erano tali che da bambino Antonio si sentiva già “vecchio”. La scuola non l’ha aiutato. Era uno studente poco brillante, è riuscito a fatica a diplomarsi: “Con me la scuola non ha funzionato, perché hanno sempre cercato di convincermi che sarei diventato un operaio”.

A 18 anni lui invece aspirava a fare altro. Leggeva molto e su internet ha cercato dei consigli su come diventare scrittore, scoprendo che si può fare a meno di una casa editrice. Così nel 2014 ha pubblicato per conto suo Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?. Tre mesi dopo Mondadori ne comprava i diritti. In un anno il libro ha venduto centomila copie. Ormai Distefano era lanciato: Prima o poi ci abbracceremo (2016), Chi sta male non lo dice (2017), sempre per Mondadori. Grande ammiratore di Puff Daddy, ha fondato insieme ad altri la rivista Esse, incentrata sui rapper italiani. “Il rap mi ha salvato la vita”, ha detto.

Contro lo scetticismo

Zero, la serie di cui ha scritto la sceneggiatura, è l’adattamento del suo romanzo Non ho mai avuto la mia età, uscito nel 2018. Gli attori principali sono Dave Seke, Dylan Magon, Virginia Diop, Daniela Scattolin, Madior Fall, Livio Kone, Haroun Fall. Sono tutti di origine africana e Distefano ne è orgoglioso. “Bisogna smetterla di andare a cercare attrici e attori neri in Francia. Anche in Italia ce ne sono di bravi, non sono tutti calciatori e rapper”.

In un’Italia che dà così poco spazio a chi è di origine africana, i suoi progetti artistici sono molto politici. Lui lo sa e lo rivendica: “Voglio che i miei nipoti e i ragazzi della loro età possano ispirarsi a una figura che somigli a loro, senza doverla cercare in un altro paese o in un altro continente come ho dovuto fare io”.

Distefano non è mai andato in Africa. Sua madre è tornata a vivere in Angola e la pandemia di covid-19 gli ha impedito di andarla a trovare . Ma è solo un rinvio.

Per ora è occupato a lottare contro lo scetticismo della società e della classe politica italiana e ad apparecchiare la tavola che ha costruito con i suoi amici. “All’odio bisogna rispondere con progetti più grandi e più belli. Alla nostra tavola invitiamo chi vuole venire!”. ◆ adr

**Oiza Queensday Obasuyi**

Una giovane scrittrice già nota per le sue prese di posizione radicali
e impegnate

Oiza Queensday Obasuyi (Francesco Alesi)

Oiza Queensday Obasuyi ha 25 anni ma in Italia ha già una discreta fama. Per le sue prese di posizione radicali e impegnate, ma anche per i suoi “sfoghi”, che fanno la gioia dei social network. E per il successo di Corpi estranei, che ha pubblicato in novembre per le edizioni People ed è già in ristampa. Obasuyi ha appena finito i suoi studi. Il 23 febbraio ha discusso la tesi magistrale in relazioni internazionali all’università di Macerata (sulle migrazioni dall’Africa verso l’Europa). Non sa ancora se vuole lavorare nella cooperazione internazionale o nella ricerca. Ma sa già che continuerà a denunciare la discriminazione quasi sistemica che segna l’Italia, come ha già fatto su Internazionale e sul sito The Vision.

Obasuyi, italiana di origini nigeriane, ha fatto di Corpi estranei un vero e proprio grido politico. Ammiratrice di Frantz Fanon e di Achille Mbembe, che ha citato all’inizio del suo libro (“Il razzismo non è un incidente, è un ecosistema”), ripete con insistenza la sua voglia di cambiamento e di riparazione.

Da bambina sognava di diventare veterinaria o biologa marina. Obasuyi è nata e cresciuta ad Ancona. “A scuola sono sempre stata l’unica studente nera”, racconta. Ha dovuto aspettare i 18 anni per diventare cittadina italiana. Si ricorda delle lunghe ore passate ogni anno all’ambasciata della Nigeria a Roma, e di sua madre che doveva continuamente rinnovare il permesso di soggiorno. “Le leggi italiane sulla cittadinanza sono retrograde. È inconcepibile che chi nasce e cresce in Italia da genitori stranieri non possa essere considerato italiano e che debba regolarmente chiedere il permesso di rimanere nel suo paese”.

Profondamente italiana

Obasuyi dice di non provare alcuna nostalgia per le sue radici africane: “Non può mancarmi un posto in cui non sono mai andata”. Ovviamente la Nigeria, il paese dei suoi genitori, le interessa: ne ama i tessuti, il cibo e la musica (con una particolare passione per l’afrobeat); ha dedicato la sua tesi triennale alla Nigeria precoloniale; non nasconde il suo fascino per le divinità Orisha e parla perfettamente l’inglese pidgin. Tuttavia si sente profondamente italiana e molto affezionata alle Marche, la regione dov’è nata.

Racconta la sua visione del mondo nella rubrica che ha su Facebook, “Non me ne ero accorta”, insieme alle scrittrici Djarah Kan (di origine ghaneana) ed Esperance Hakuzwimana Ripanti (di origine ruandese). Obasuyi parla del suo fascino per i movimenti rivoluzionari africani e critica la filantropia occidentale, che troppo spesso si alimenta di “una pornografia della povertà” fatta di guerre e di bambini malnutriti. Chi la critica le rimprovera le prese di posizione nette e lo stile duro, ma Obasuyi non ci fa caso. “Non sono una giornalista, non devo essere imparziale. E poi non ho voglia di rimanere imparziale di fronte all’ingiustizia o all’assenza di diritto”.

I “corpi estranei” del suo saggio sono quelli dei migranti e dei loro figli, quelli che la società italiana nasconde e non vuole vedere, i corpi esclusi dalla sfera politica, privati dei diritti, derisi sui mezzi d’informazione e al cinema e talvolta violentati.

Obasuyi denuncia anche una legislazione che discrimina, dalle leggi razziali del 1938, per cui “i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere modificati in alcun modo”, fino alla legge 189 (conosciuta con il nome Bossi-Fini), che dal 2002 cerca di regolare i flussi migratori.

I morti nel Mediterraneo

Non risparmia la voce contro i discorsi che alimentano la paura di una sostituzione etnica e contro le discriminazioni che prendono di mira chi chiede asilo. Parla dei morti nel Mediterraneo, denuncia il sostegno finanziario dato dall’Italia alla guardia costiera libica, la connivenza tra i mezzi d’informazione italiani e il governo, il sessismo, il patriarcato.

“Non mi piacciono le persone che si risparmiano”, diceva Frantz Fanon. Una citazione che si adatta bene all’impegno e all’energia dimostrata da Obasuyi. ◆ adr

**Johanne Affricot**

Valorizzare le produzioni artistiche dell’Africa e della sua diaspora

Johanne Affricot (Marco Brunelli)

In Italia, nell’universo degli artisti afrodiscendenti, è impossibile non fare i conti con Johanne Affricot. C’è chi spera d’intervistarla per il proprio blog, chi sogna di collaborare con lei e di ottenere così visibilità e riconoscimenti. Affricot è alla guida di Griot, una piattaforma fondata nel 2015, e si dedica a celebrare la diversità dei percorsi e a far sentire la voce degli afroitaliani, ma anche a valorizzare le produzioni artistiche dell’Africa e della sua diaspora. L’obiettivo? Cambiare il modo in cui la società italiana guarda i neri.

“Fino a non molto tempo fa le nostre voci non erano ascoltate”, afferma. “Anche i nostri corpi venivano esibiti in modo stereotipato”. Nauseata dai discorsi intrisi di odio e nazionalismo, dice di non tollerare più questa retorica passatista che “assimila l’immigrazione a una minaccia per l’autenticità autoctona”, senza preoccuparsi “di schiacciare i più vulnerabili”.

L’idea di Griot le venne nel 2014, quando faceva la curatrice a Roma e coordinava il progetto artistico Triumphs and laments dell’artista sudafricano William Kentridge. Non esitò a fare il salto e così nacque Griot. Concepito come un blog, nel giro di poco tempo sarebbe diventato una piattaforma di comunicazione e un collettivo artistico in cui si mescolano italiano, inglese e qualche volta francese.

Pranzi cosmopoliti

Johanne Affricot è una delle curatrici nere più note in Italia. Nata in Italia negli anni ottanta da madre haitiana e padre ghaneano, da bambina viaggiò molto. Sua madre la portava spesso ad Haiti e negli Stati Uniti, dove risiede parte della sua famiglia. Anche a casa dei suoi genitori, a Roma, c’erano viaggi, incontri, incroci di culture. A casa Affricot i pranzi della domenica, a cui partecipavano amici e parenti, erano vivaci e cosmopoliti. “Sono stata molto fortunata. Da piccola sentivo di continuo parlare creolo, lingala, kikongo, wolof o francese”, ricorda. È orgogliosa delle sue origini. “Haiti e il Ghana sono paesi che hanno sempre lottato contro l’oppressore”, si entusiasma. “Pensate ad Haiti e alla sua rivoluzione!”.

A 18 anni ha ottenuto la cittadinanza italiana. Con il diploma di maturità in tasca e la voglia di “cambiare il mondo”, s’iscrisse a cooperazione e sviluppo internazionale dove ha imparato che bisognava relativizzare l’impatto benefico dell’azione delle ong e ha approfondito la questione dei rapporti tra il nord e il sud. Più o meno in quel periodo capì di avere una predilezione per tutto ciò che è legato alla creazione artistica. “Ho lavorato per diverse agenzie di comunicazione, ma anche per importanti istituzioni italiane”, spiega. “Più andavo avanti e più sentivo che mancava qualcosa”. Il suo percorso professionale l’ha portata più volte in Africa. Prima a Bamako, con uno stage per il ministero degli esteri e della cooperazione internazionale. Poi a Dakar, Addis Abeba e Johannesburg, come direttrice artistica di Mirror, il progetto di danza contemporanea e di video-arte di Griot, realizzato nell’ambito del programma “Italia, culture, Africa”.

Iperattiva

Con gli anni, ha moltiplicato i progetti mescolando spesso generi e format. Su Griot le produzioni dei componenti del collettivo si affiancano a resoconti letterari e sociali, videoclip musicali e foto d’arte… Johanne Affricot e i due soci, Céline Angbeletchy e Eric Otieno, non temono le contaminazioni.

È una persona iperattiva e moltiplica le collaborazioni, scrivendo per Vice Italia, Afropunk o Artribune. “Non mi impongo limiti”, spiega. “Ho degli obiettivi molto precisi e faccio in modo di andare avanti”. Sempre con la stessa costante: valorizzare le minoranze nere per far sì che i giovani italiani afrodiscendenti possano uscire dal loro isolamento e “nutrire il loro immaginario”.

Ha anche diretto la docuserie Motherland, dedicata agli artisti afroitaliani. E in The expats. The untold stories of black italians abroad (Espatriati. Le storie non raccontate degli italiani neri all’estero) ha seguito il percorso di afroitaliani espatriati a New York e a Londra che cercano di infrangere il pregiudizio secondo cui i bianchi sono “espatriati” e i neri “migranti”.

“Smettiamola di mostrare gli afrodiscendenti d’Europa come un blocco monolitico!”, insiste. Lei si definisce “panafricana”, ma potrebbe essere anche “panafropea”, riecheggiando il libro Afropea di Léonora Miano. Perché nonostante tutte le difficoltà, Johanne Affricot non ci pensa proprio a lasciare l’Italia: “Io amo l’Italia, e amo Roma, la mia città. Voglio contribuire a farla brillare attraverso l’arte e la cultura. Non è sempre facile, ma questo è il mio paese. Nel bene e nel male”. ◆ gim

**Tommy Kuti**

Il primo rapper nero ad aver firmato con l’etichetta Universal Music Italia

Tommy Kuti (Vittorio Zunino Celotto, Getty)

Tolulope Olabode Kuti non corrisponde allo stereotipo del rapper. È tranquillo e sorridente. Non parla di violenza né di droga, ma dell’importanza della famiglia, delle amicizie che bisogna coltivare e della necessità di lottare contro i pregiudizi. Non indossa abiti firmati come si fa di solito nell’ambiente dell’hip hop, ma dà spesso risalto a stilisti afrodiscendenti.

Meglio conosciuto con il nome di Tommy Kuti, come lo chiamavano le suore alla scuola materna, è il primo rapper nero ad aver firmato con l’etichetta Universal Music Italia nel 2016. Da allora questo trentenne di origine nigeriana sforna successi.

Racconta la sua storia in un libro autobiografico edito da Rizzoli nel 2019, Ci rido sopra. Un racconto in forma di psicanalisi in cui veniamo a sapere che è nato ad Abeokuta, in Nigeria. Arrivato in Italia a due anni, è cresciuto circondato da zii, zie e cugini. A casa Kuti si ascoltava Wasiu Ayinde e King Sunny Ade, i pranzi erano a base di riso jollof e si ammazzava il tempo guardando i film di Nollywood. I genitori facevano due lavori e il piccolo Tolulope li aiutava di pomeriggio, lavorando nella bottega di prodotti esotici che gestivano nel quartiere dei Cinque continenti a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia. Ha scoperto il rap nel 2003, quando andò a trovare i parenti che vivevano a Londra. I rapper lo affascinavano. Ammirava la loro marginalità, la loro capacità di compensare gli svantaggi sociali con il talento. E soprattutto erano neri. “Da adolescente”, racconta, “non c’era un Tommy Kuti che scriveva un libro o faceva un album in cui potevo riconoscermi. Eppure ne avrei avuto davvero bisogno!”. Tolulope capì di avere una grande passione. Quando lo interrogavano in classe rispondeva facendo slam. Si comprò un microfono (quindici euro al supermercato), vinse una borsa di studio per andare a studiare all’estero e usò una parte dei soldi per registrare il suo primo album indipendente.

A 21 anni, diplomato alla Anglia Ruskin university di Cambridge, è tornato in Italia. Parlava italiano, inglese, francese, tedesco e non riusciva a trovare niente di meglio di uno stage pagato 500 euro al mese. Intanto continuava a scrivere e a esibirsi nei bar e nei centri culturali. A Brescia, nel 2015 ha creato con altri afroitaliani l’etichetta Mancamelanina. Nel 2018 si è imposto sulla scena musicale italiana con l’album Italiano vero. Un titolo tra gli altri ha contribuito a farlo conoscere: AfroItaliano, ripreso da un’intera generazione in cerca di visibilità e riconoscimento.

Instancabile

Anni dopo, raccontando del quartiere in cui è cresciuto, dei traffici e degli abusi a cui ha assistito, parla del conservatorismo e del razzismo della società italiana, che lascia pochissimo spazio alle minoranze. Ma anche del suo attaccamento a questo paese e dell’ammirazione che nutre per i suoi genitori, “che non parlavano italiano, che non conoscevano nessuno e che nonostante tutto sono riusciti a costruirsi un futuro”.

“Aver avuto fame e aver avuto rabbia mi ha fatto venire la voglia di uscirne”, spiega.

Nel 2020 ha fondato il suo gruppo, É­quipe 54, di cui ci presenta i componenti: “Slim Gong, dalla Mauritania, è il saggio del deserto; Yank, dal Senegal, è il nostro Charles Bukowski; Roy Raheem, dalla Nigeria, è un poeta-guerriero, e il rapper F.u.l.a. un griot”. Tommy Kuty sogna di poter creare un giorno un’etichetta tutta sua. “Non esiste il riposo: Kuti, il mio cognome vuol dire ‘che non può morire’”. Oggi vive a Milano, dove ha partecipato al lancio di una nuova trasmissione, 2G rap, in onda su TrxRadio, con Rebecca Kazadi. “Spero che presto non ci sarà più bisogno di un programma così”, sottolinea Tommy Kuti. “Spero che un giorno sarà normale trovare nei mezzi di comunicazione giovani di seconda generazione con origini migranti”.

Non perdere il sorriso

Tolulope parla di politica ma non si definisce un artista impegnato. “Sono solo uno che quando vede un’ingiustizia lo racconta in una canzone”. E conclude: “La mia musica è ciò che sono. Nella mia vita ho vissuto e ho visto drammi che hanno influenzato il mio carattere, ma non ho mai perso il sorriso. Come dice Youssoupha, il dolore è inevitabile, la sofferenza è una scelta”. ◆ gim

**Angelica Pesarini**

Un master in genere e globalizzazione l’ha convinta a dedicarsi alla ricerca

Angelica Pesarini (Niccolò Rastrelli)

Per Angelica Pesarini la filiazione, familiare o storica, è un filo rosso che guida la sua riflessione ed è al centro delle sue ricerche. Di sicuro un ruolo importante lo hanno le sue origini: è una sociologa nata a Roma e cresciuta a Reggio Emilia in una famiglia italo-somalo-eritrea.

Ricercatrice alla New York university di Firenze, dove tiene un corso intitolato “Black Italia” (Italia nera), ricorda volentieri di aver avuto un’infanzia felice. Da adolescente voleva fare l’artista. Si era appassionata al teatro e grazie alla grande biblioteca di famiglia aveva scoperto Toni Morrison e James Baldwin. Ha studiato antropologia all’università Sapienza di Roma, poi si è trasferita nel Regno Unito, e lì ha trovato la sua strada.

A Londra ha fatto un master in genere e globalizzazione, una vera rivelazione che l’ha convinta a dedicarsi alla ricerca. Così ha cominciato un dottorato all’università di Leeds, sulla ricerca identitaria delle donne nate da matrimoni misti nelle ex colonie italiane. “Non è stato un semplice dottorato, ma un viaggio alla scoperta di me stessa”, spiega.

Un aggettivo da rifiutare

È partita per l’Eritrea per conoscere una parte della sua famiglia, di cui aveva solo pochi ricordi legati alla madre e alla nonna “che facevano la cerimonia del caffè, cucinavano l’injera o lo zighinì, e festeggiavano delle ricorrenze particolari”. Durante questo viaggio ha ritrovato alcune parole in tigrino, la lingua che i suoi genitori non le avevano mai insegnato, stupendosi della facilità con cui le tornavano alla memoria alcune espressioni.

Mentre la “storiografia egemonica” si era fino a quel momento concentrata solo sugli uomini bianchi che hanno avuto figli con donne dell’Africa orientale, Pesarini ha deciso di studiare gli effetti del potere maschile e coloniale sulla relazione tra le madri nere e le loro figlie meticce. Meticcio è un aggettivo che lei usa con molta parsimonia, rifiutando di applicarlo a se stessa (preferisce definirsi una nera) proprio perché rimanda all’Italia fascista.

“Il termine meticcia, come mulatta, rimanda al dominio dei bianchi – che classifica, gerarchizza, attribuisce o nega la purezza – ma anche al mondo animale e ai suoi incroci”, sottolinea, paragonando il corpo a uno spazio politico su cui si esercitano i rapporti di potere.

Pesarini torna indietro nel tempo, racconta la storia delle donne costrette a cedere le loro figlie a missioni religiose, figlie quindi allevate lontane da loro e in un’altra lingua. Spiega che si trattava di una strategia per avvicinare i bambini all’italianità dei padri (secondo le credenze dell’epoca, il “sangue italiano” si trasmetteva per via paterna).

Tutto cambiò nel 1940, quando una legge vietò le unioni miste per limitare il rischio di attentato alla “purezza della razza”. Il fatto che ancora oggi in Italia la cittadinanza si acquisisca per diritto di sangue è ai suoi occhi una reminiscenza d’altri tempi, “un relitto coloniale e fascista”.

Militanza

“Sono figlia di una violenza, e lo sarei anche se i miei genitori si fossero amati, come in un bel fotoromanzo”, prosegue citando Timira, romanzo meticcio, di Antar Mohamed e Wu Ming 2, pubblicato nel 2012: “L’amore ai tempi delle colonie è impastato di ferocia. Un pugnale affilato minaccia e uccide, anche se lo spalmi di miele”.

Tematiche che si trovano anche nel suo saggio Madri nere, figlie bianche. Forme di subalternità femminile in Africa orientale italiana, pubblicato nel 2014, ma anche nel racconto Non s’intravede speranza alcuna, pubblicato nel 2019 in una raccolta intitolata Future, che comprende i testi di undici autrici italiane afrodiscendenti.

Attraverso la corrispondenza immaginaria di un italiano con i dirigenti dell’istituto religioso a cui sua figlia è stata affidata, Pesarini descrive il trattamento riservato ai figli che i coloni fascisti avevano avuto con le donne eritree negli anni trenta. Pesarini vuole che i suoi scritti e le sue ricerche siano ad accesso libero, per poter essere condivisi. “La conoscenza dà un potere talmente forte”, spiega. “Condividerlo è una forma di militanza”. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati