In Marocco, come in altri paesi del mondo arabo, i primi ad approfittare dei cambiamenti innescati dall’ondata di proteste popolari del 2011, passate alla storia con il nome di “primavere arabe”, sono stati i partiti islamisti – quelli cioè che propongono programmi politici in linea con i dettami dell’islam – e in particolare il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd). Questa formazione affiliata ai Fratelli musulmani non partecipò alle manifestazioni studentesche per reclamare più diritti, uguaglianza e libertà, ma “riuscì a raccogliere i frutti della contestazione e vinse di ampia misura le elezioni legislative di quell’anno”, fanno notare Christophe Ayad e Frédéric Bobin in un altro articolo della serie dedicata al Marocco uscita sul quotidiano francese
Le Monde.
La vittoria del Pjd fu un fulmine a ciel sereno perché per la prima volta gli islamisti si affermavano come primo partito del paese. Il segretario generale del Pjd, Abdelilah Benkirane, fu nominato primo ministro di un governo di coalizione. Il quotidiano descrive un rapporto conflittuale tra il re Mohammed VI e Benkirane, una persona senza peli sulla lingua e sempre pronta a dire la sua, che “non esitava a mettere in piazza i suoi scontri con il palazzo reale sulle decisioni di bilancio o la direzione politica generale”.
Dopo una nuova vittoria di Benkirane nel 2016, il re marocchino lanciò “una guerra di logoramento contro gli islamisti, chiedendo ai suoi alleati in parlamento di non partecipare a una coalizione di governo con il Pjd finché a guidarlo ci fosse stato Benkirane”. Così entrò in carica un nuovo primo ministro del Pjd, Saadeddine el Othmani, “meno carismatico e ribelle di Benkirane”.
Il palazzo poi spinse l’esecutivo ad adottare quattro misure che hanno minato la popolarità degli islamisti: la fine delle sovvenzioni statali ai carburanti, la legalizzazione della cannabis terapeutica, il rafforzamento dell’insegnamento del francese nella scuola pubblica e la normalizzazione dei rapporti con Israele.
“Dopo due faticose legislature, il Pjd ha perso le elezioni del 2021 a vantaggio del Raggruppamento nazionale degli indipendenti, guidato da un uomo vicino al re, l’imprenditore Aziz Akhannouch. Senza fare troppo rumore e senza ricorrere alla repressione, Mohammed VI è riuscito a spegnere la fiamma islamista, perlomeno la sua frangia più moderata”.
Con l’uomo d’affari più ricco del Marocco al comando, “non c’è più nessuno a contrastare il potere del re, che ha di fronte a sé un deserto politico”. Come confida una fonte vicina al palazzo reale a Le Monde, “la cosa più preoccupante è che non c’è più mediazione. Se scoppieranno nuove rivolte, i partiti non saranno più lì a canalizzare il dissenso e a formulare richieste ragionevoli”.
Una violenta contestazione delle autorità c’è già stata nel 2016, nella regione settentrionale del Rif. Nell’ottobre di quell’anno un venditore ambulante rimase schiacciato in un camion della nettezza urbana mentre cercava di recuperare i pesci che la polizia gli aveva sequestrato. Quella tragedia, frutto della povertà, fu la scintilla di una contestazione che si diffuse da quella regione povera ed emarginata al resto del paese.
“La rivolta del Rif è stata un fallimento personale di Mohammed VI, che aveva voluto riconciliare la monarchia con una regione che era stata volutamente trascurata dal padre”, confida a Le Monde un analista politico che chiede di restare anonimo. “È anche il fallimento della sua strategia di lotta alla povertà”. Dal 2017 le manifestazioni sono state represse con la violenza e gli arresti. I leader del movimento di contestazione del Rif sono stati condannati a pene severe. “Il messaggio era chiaro: ogni rivolta sarebbe stata soffocata senza pietà. Era la fine delle speranze di apertura scaturite dalla primavera araba”. ◆ fsi
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati