Anche se ha inciso tre dei dischi cardinali del funk – quattro se includiamo Greatest hits del 1970 – la caduta di Sly Stone fu vista come un doloroso tradimento del suo talento. Il suo crollo fu spettacolare: la tossicodipendenza, le apparizioni sconnesse in tv e un gruppo, la Family Stone, allo sbando. Eppure, per quasi un decennio, Stone era stato l’imperatore del funk, rivoluzionando il pop e la musica da ballo, più volte, simbolo di speranza e orgoglio. Il suo genio sembrava inesauribile. Dopo un inizio difficile con A whole new thing (1967), trovò la formula vincente con Dance to the music (1968), un irresistibile richiamo al funk. Con Stand! (1969), il primo album perfetto, fuse potere nero e messaggi di denuncia sociale. Il singolo Thank you (falettinme be mice elf agin) chiuse l’anno, con Larry Graham che reinventava il basso a colpi di slap. Nel 1971, There’s a riot goin’ on aveva i primi segni del declino. Registrato in uno stato di caos creativo, aveva perso la chiarezza dei lavori precedenti: Family affair era oscura e straziata, e Thank you for talkin’ to me Africa trasformava la potenza in malinconia. Dopo Small talk (1974), la Family Stone si sciolse. E Stone sparì, travolto da droga e problemi legali, pubblicando alcuni dischi fiacchi. Ma aveva già dato tutto. Come cantava in Stand!: “Alla fine, sarai sempre tu / quello che ha fatto tutto quel che voleva fare”. Nuovo Icaro, Sly Stone ha toccato il cielo, e pochi hanno volato così in alto. Stevie Chick, The Guardian

Sly Stone, 1973 (Michael Putland, Getty)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati