Se Krystsina Tsimanouskaja non avesse rischiato di essere avvelenata dai servizi segreti bielorussi, probabilmente oggi avrebbe scelto il chlodnik, una zuppa fredda di barbabietola servita con aneto e yogurt kefir. È un piatto nazionale sia della Bielorussia, il paese dov’è nata e da cui è appena fuggita, sia della Polonia, la sua nuova patria, dove vive sotto protezione 24 ore su 24. Ora l’atleta bielorussa non mangia nulla che non sia stato prima verificato dai servizi di sicurezza polacchi. Non può bere nemmeno acqua in bottiglia.
Quando la incontro è passata solo una settimana dal 1 agosto, il giorno in cui Tsimanouskaja, 24 anni, è fuggita dalle Olimpiadi di Tokyo e ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dopo alcuni contrasti con le autorità sportive bielorusse, i funzionari del regime guidato dal presidente Aleksandr Lukašenko dal 1994 avevano cercato di caricarla su un aereo per riportarla in patria. Ma Tsimanouskaja si è avvicinata a un poliziotto giapponese e gli ha chiesto aiuto. La Polonia le ha offerto protezione. Così mi ritrovo al Flaming & Co, un ristorante nel quartiere delle ambasciate di Varsavia. Tsimanouskaja, la cui nuova vita è cominciata da pochi giorni, non aveva idea di dove potessimo incontrarci. Ho scelto un luogo spazioso e centrale, mi sembrava più sicuro e adatto alla presenza delle guardie del corpo. Sono arrivata in anticipo, curiosa di scoprire se gli agenti della sicurezza avrebbero perlustrato l’area. Mezz’ora prima dell’arrivo della ragazza nel locale sono entrati due uomini robusti con auricolari e giubbotti antiproiettile.
Tsimanouskaja arriva un minuto prima delle 11 del mattino, accompagnata dal marito. Indossa un paio di jeans e una maglietta rosa, tiene sciolti i capelli biondi e lisci. Sostiene il mio sguardo senza sorridere. Sul suo volto noto le tracce di giorni carichi di stress e anche di un po’ di stanchezza per tutta l’attenzione ricevuta.
Le chiedo se vuole dare un’occhiata al menù. “No”, risponde. Magari qualcosa da bere? “No”, ripete con tono grave. “Non possiamo”. Dopo l’avvelenamento dell’ex agente segreto Sergej Skripal e di sua figlia e, più recentemente, del leader dell’opposizione russa Aleksej Navalnyj nessuno vuole correre rischi. Grazie al Kgb – i servizi segreti bielorussi hanno mantenuto il vecchio nome dopo la caduta dell’Unione Sovietica – il nostro non è un pranzo normale. Con una certa vergogna ordino prosciutto e melone. Chiedo alla mia commensale (per modo di dire) cosa si prova a essere buttata fuori dalle Olimpiadi e a perdere la patria nel giro di una settimana. “È difficile. Non ho capito cosa è successo né perché”, mi spiega in russo. “Ma quando sono arrivata in Polonia e mio marito mi ha raggiunta ci siamo seduti e abbiamo pensato: ‘Non possiamo farci niente, dobbiamo andare avanti’”.
Al posto di un’altra
Le chiedo se è in grado di ricostruire le ultime ore in Giappone. “È cominciato tutto il giorno della gara dei cento metri. Quando sono tornata al villaggio olimpico ho scoperto che invece avrei dovuto correre la staffetta 4x400”.
I funzionari infatti avevano bisogno di qualcuno che prendesse il posto di un’atleta per la quale avevano dimenticato di presentare il test antidoping. “Ma io non ho mai corso su quella distanza in vita mia. Era incredibile che avessero preso una decisione del genere senza consultarmi”. Mentre parla si agita sempre di più. “Ho scritto un messaggio chiedendo se era vero, ma non mi hanno risposto. È stata una mancanza di rispetto nei miei confronti. Quindi sono entrata sul mio profilo Instagram e ho fatto un video per denunciare la situazione”. Dieci minuti dopo un funzionario bielorusso ha chiamato chiedendole di cancellare il video. Se non l’avesse fatto l’avrebbero espulsa dalla squadra. Tsimanouskaja ha eseguito l’ordine, ma poche ore dopo ha scoperto che la tv bielorussa stava trasmettendo il video. “Il giorno dopo al telegiornale hanno cominciato a dire che avevo problemi mentali”, mi spiega parlando sempre più velocemente. Mi guarda negli occhi e dice: “Conosciamo molti casi in cui persone sane sono state mandate in un ospedale psichiatrico solo perché hanno detto quello che pensavano”. Le hanno dato quaranta minuti per fare le valigie. “Uno psicologo mi ha detto di seguirlo e di non portare il telefono. Mi ha spiegato che lavorava a Navinki, nell’ospedale psichiatrico dove rinchiudono i pazzi come me, le persone a rischio suicidio e gli assassini. Poi ha aggiunto: ‘Avanti, strilla, piangi!’ Ma gli ho detto che non avrei fatto niente del genere”.
Le chiedo se è vaccinata. “Sì, con lo Sputnik”, mi risponde con espressione eloquente. E aggiunge che i paesi europei non lo riconoscono
A questo punto arriva il mio piatto. È una porzione enorme. “Da dove è arrivato l’ordine di portarti via?”, le chiedo.
“È ovvio. A Minsk c’è solo una persona che dà gli ordini”, risponde con un sorriso. Le chiedo se ha mai fatto politica, ricordandole che non ha firmato l’appello degli atleti bielorussi contro la dittatura di Lukašenko. “Non volevo rischiare che mi facessero fuori. Volevo allenarmi per le Olimpiadi. Ma durante le proteste ho pubblicato un video su Instagram dichiarando che ero contro l’uso della violenza. Dopo cinque minuti mi hanno chiamato dicendo: ‘Il tuo video è stato visto ai vertici. Devi cancellarlo, altrimenti ci saranno problemi’”. Tsimanouskaja si è rifiutata e ha perso il bonus destinato agli atleti, circa cento dollari.
Siamo seduti all’ombra e noto che Tsimanouskaja trema. “Ho pochi vestiti”, mi spiega, ridendo per la prima volta da quando ci siamo incontrati. “A Tokyo avevo solo gli abiti che mi avevano dato, più un paio di jeans e una maglietta”. Le offro una felpa blu che ho portato con me. La indossa e mi sento orgogliosa di quel mio vecchio indumento, mentre lo vedo scivolare sui muscoli granitici delle sue braccia. Le chiedo se ha avuto modo di fare acquisti dopo l’arrivo in Polonia. Mi risponde che non può. Perché non ordina online? Non può fare nemmeno quello. “Il fatto è che non conosciamo il nostro indirizzo”, scoppia a ridere. “Però non è un problema. In questo modo non devono vietarci di dire dove viviamo. Abbiamo una bella stanza, c’è un cuoco e tutto è squisito. Siamo grati alla Polonia per averci accolto e per la protezione che ci viene garantita”, aggiunge.
Fino al confine
Tsimanouskaja è una campionessa, ma davanti al rischio di morire è solo una ragazza che ha appena messo in imbarazzo un dittatore. “Molti mi hanno espresso il loro sostegno, ma non tutti. Ho ricevuto un messaggio da una persona che ha promesso di farmi a pezzi lo stomaco”. Nel frattempo continuo a mangiare il mio prosciutto e melone. Le chiedo se le piace, ma non sa cosa sia. “Melone e prosciutto? Frutta dolce con carne?”. Guarda il mio piatto con l’aria di una che non ha visto molte cose più disgustose in vita sua. Mi racconta la sua dieta. Toast con avocado per colazione. Pesce o pollo per pranzo. Evita altri tipi di carne, soprattutto prima delle gare, perché per digerire la carne rossa si consumano molte energie. Mangia parecchia verdura. Per i carboidrati riso e grano saraceno.
Dopo che la nonna le ha consigliato di non tornare in Bielorussia in seguito allo scontro con i funzionari, Tsimanouskaja ha chiamato la Fondazione bielorussa per la solidarietà sportiva, un’organizzazione di dissidenti. Suo marito ha dovuto lasciare il paese prima che le autorità cercassero di fermarlo. “Ha fatto le valigie in mezz’ora, è salito in macchina e ha guidato fino al confine russo, per poi entrare in Ucraina”. Altri bielorussi hanno seguito quella rotta per scappare in Polonia.
La maggior parte dei governi, compreso quello polacco, ha interrotto i collegamenti aerei con Minsk a maggio, dopo che il regime di Lukašenko aveva intercettato un volo che trasportava Roman Protasevič, un attivista dell’opposizione in esilio. A quel punto i fuggitivi sono stati costretti a scappare via terra. Nell’ultimo anno più di 12mila persone hanno ricevuto un visto umanitario dalla Polonia. Varsavia si è trasformata in una base per i dissidenti bielorussi, talmente numerosi che vengono organizzate operazioni clandestine a pagamento per recuperare i loro cani e gatti.
Nel taxi che l’ha portata all’aeroporto Haneda di Tokyo, Tsimanouskaja era accompagnata dallo psicologo e da un rappresentante del comitato olimpico bielorusso. Ho immaginato che fosse terrorizzata. “Mi chiedevo ‘cosa posso fare se non trovo un poliziotto? Strappo il passaporto? Comincio a correre?’”. Alla fine ha trovato un agente della sicurezza aeroportuale e ha scritto un messaggio su un’app che l’ha tradotto in giapponese. Quelle parole hanno cambiato la sua vita. “Ho bisogno di aiuto. Stanno cercando di farmi uscire dal paese con la forza”. La Polonia è stata tra i primi paesi a offrirle un rifugio. “Qui per i miei genitori e mio marito sarebbe stato facile raggiungermi”, mi spiega. Inoltre dice di aver sempre amato questo paese. “È qui che ho vinto la mia prima medaglia, ai campionati europei under 23”.
Una famiglia normale
Il volo verso Varsavia è stato simile a quelli che si vedono nei film di spionaggio. All’ultimo momento due consoli polacchi hanno deciso di farle cambiare aereo per depistare i giornalisti e qualsiasi agente bielorusso male intenzionato. “Quando sorvolavamo la Russia i consoli guardavano continuamente la mappa e comunicavano con i piloti per assicurarsi che nessuno stesse cercando di dirottarci. Quando abbiamo lasciato lo spazio aereo russo hanno tirato un sospiro di sollievo”.
Dopo aver affrontato i dettagli della sua fuga, parliamo della vita di Tsimanouskaja prima che diventasse una celebrità della nuova guerra fredda. Mi dice che la sua era “una normale famiglia bielorussa”. È cresciuta a Klimavičy, una piccola città. Il padre era un pompiere (ora è in pensione) mentre la madre lavora in banca. Il volto di Tsimanouskaja s’illumina. Da bambina non ha potuto fare sport a causa di un problema di salute, ma a 13 anni le è stato permesso di partecipare alle lezioni di educazione fisica, e si è visto subito che aveva un talento naturale.
◆ 1996 Nasce a Klimavičy, in Bielorussia.
◆ 2010 Comincia a fare atletica, anche se i genitori sono contrari. Per convincerli si fa aiutare dalla nonna.
◆ 2017 Vince l’argento nei cento metri agli europei under 23 in Polonia.
◆ 2019 Vince l’oro nei cento metri alle Universiadi di Napoli.
◆ agosto 2021 Durante le Olimpiadi di Tokyo scappa in Polonia per sfuggire alle autorità bielorusse.
Dopo aver finito il melone ordino il chlodnik. “La zuppa?”, mi chiede Tsimanouskaja. La sua espressione si rallegra. Quella le piace. Mi dice che sa prepararla. “Ho cominciato a fare sport a 14 anni e sono entrata nella squadra olimpica a 18. A 19 anni ero campionessa nazionale di velocità. Da allora nessuno mi ha battuta”. In Bielorussia i campioni dello sport hanno alcuni privilegi, ma da loro si pretende totale lealtà al regime e una reverenza personale nei confronti di Lukašenko. Il figlio maggiore del presidente, Viktor, è a capo del comitato olimpico bielorusso. Il figlio minore, Dmitryj, gestisce il Club sportivo presidenziale.
Avevo sentito dire che quando era a Tokyo Tsimanouskaja aveva ricevuto l’ordine di presentarsi entro tre ore al lavoro nella sede di un ministero. Le chiedo di spiegarmi perché. “In Bielorussia molti atleti sono dipendenti delle forze dell’ordine, come l’esercito o la polizia di frontiera. Io ero al ministero dell’interno”. Le chiedo se si è arricchita grazie ai successi sportivi. Mi risponde borbottando che nei primi anni di carriera veniva pagata meno di 200 dollari al mese. “Avevamo una piccola stanza in un palazzo residenziale, nove metri quadrati e un bagno condiviso con un’altra famiglia. In ogni piano c’erano molti appartamenti e dividevamo un’unica cucina. Se lasciavi lì il mangiare, te lo rubavano. I nostri genitori ci mandavano un po’ di soldi”. In seguito Tsimanouskaja ha ottenuto uno stipendio che le ha permesso di mangiare meglio e comprare degli integratori. “In Bielorussia non esistono sponsorizzazioni, solo borse di studio concesse dal presidente. Guadagnavamo andando all’estero per partecipare a gare con premi in palio. Ma durante la pandemia i permessi sono diminuiti”. Solo gli atleti fedeli al regime potevano viaggiare. Perché Lukašenko non permetteva a tutti di partire? “Non lo so, non sono Lukašenko. Chiamalo e chiediglielo. Forse aveva paura che concedessimo interviste”. Le chiedo se è vaccinata. “Sì, con lo Sputnik”, mi risponde con un’espressione eloquente, prima di aggiungere che la maggior parte dei paesi europei non riconosce il vaccino russo. Le piacerebbe gareggiare per la Polonia, ma il problema è che nello sport servono tre anni per cambiare nazionalità. Difficile farcela per le olimpiadi di Parigi del 2024.
Un cameriere mi porta il mio chlodnik, servito alla maniera polacca: in un piatto da zuppa, non in una scodella. Le chiedo ancora delle proteste a Minsk contro la contestata rielezione di Lukašenko. Tsimanouskaja e la sua famiglia vivevano alla periferia della capitale e le strade erano bloccate dalla polizia. Ha pensato che i manifestanti potessero farcela a rovesciare il regime? “Quando abbiamo visto migliaia di persone in strada eravamo sicuri che il popolo avrebbe vinto. Poi hanno cominciato a picchiare la gente e a sparare, e tutti si sono spaventati. Ma alla fine ce la faremo, creeremo una Bielorussia nuova e libera. Però non sappiamo quando”.
Alcuni colleghi l’hanno bloccata sui social network. “Sono sicura che l’abbiano fatto per eseguire un ordine. Ma è una loro decisione. Io ho scelto di non avere paura e di non restare più in silenzio”. Per tutta la durata della nostra conversazione suo marito rimane lì, sorridente. Commenta i tatuaggi che ha sul braccio. Uno riporta la data del loro matrimonio. Anche lui è un velocista, oltre che uno dei suoi allenatori. Stanno insieme da otto anni e sono sposati da tre. Per la luna di miele sono venuti in Polonia. “Forse avevamo già progettato tutto nel 2018”, mi dice strizzando l’occhio e prendendo in giro la tesi del regime secondo cui la fuga sarebbe stata pianificata.
Tempo scaduto
Chiedo a Tsimanouskaja se pensa che le autorità bielorusse potrebbero cercare di rapirla. Lei dice di sentirsi al sicuro in Polonia e di aver ricominciato ad allenarsi, anche se non può dirmi in quale struttura. Mi sono stupita per l’ottima pubblicità che Varsavia ha ottenuto salvando una velocista in difficoltà. Dopo un’ora e mezza di conversazione il tempo a nostra disposizione finisce. Tsimanouskaja si toglie la mia felpa e me la restituisce, prima di sparire dentro una macchina.
Quando vado via, pochi minuti dopo di lei, noto che ci sono due guardie del corpo e una Rolls-Royce. Uno dei camerieri mi dice che la macchina appartiene al direttore di una società specializzata in prestiti, che teme d’incontrare dei clienti insoddisfatti. Evidentemente ho scelto il luogo più sicuro di Varsavia. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati