Un’onda d’urto paragonabile a due bombe atomiche, come quella che è stata sganciata su Hiroshima. Questa è una delle tante tragiche stime venute fuori dalle perizie processuali dopo il disastro del Vajont, in cui morirono 1.918 persone.
La sera del 9 ottobre 1963 dalle pendici del monte Toc si staccarono 270 milioni di metri cubi di pietre, terra e detriti che finirono nella diga che chiudeva il torrente Vajont, tra il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia. Sessanta milioni di metri cubi di acqua travolsero Longarone e altri centri.
La diga fu concepita negli anni venti sotto la guida dell’ingegnere Carlo Semenza, e fu completata nel 1959. Un’opera ambiziosa che alla sua inaugurazione non aveva rivali: con i suoi 261,60 metri era la più alta al mondo. Ma questo capolavoro di ingegneria rivelò presto i primi problemi nelle pendici del monte Toc, composte da una massa rocciosa instabile e permeabile, residuo di una frana preistorica. Nei mesi successivi, con il bacino idrico pieno, cominciarono a verificarsi scosse e frane superficiali. L’area era a rischio idrogeologico, tutti lo sapevano, anche gli abitanti di quei paesi che non esistono più, ma le autorità, i progettisti e l’azienda elettrica Sade restarono in silenzio.
Le prime narrazioni dopo l’accaduto parlarono di furia della natura ma quella del Vajont è stata una tragedia dell’antropocene, come scrive la ricercatrice Roberta Agnese in uno dei testi che accompagnano il volume Calamita/à. An investigation into the Vajont catastrophe: “Un progetto di ‘ecologia politica’ sfociato in un disastro evitabile, causato dalla hybris di una visione ingegneristica nutrita di contrasti e contraddizioni”.
Calamita/à è nato nel 2013 su iniziativa di due fotografi, Gianpaolo Arena e Marina Caneve, che volevano dare il via a un progetto di ricerca multidisciplinare nei territori del Vajont e mettere in moto una riflessione sulla rappresentazione di una catastrofe ambientale. L’ambivalenza del titolo contiene il magnetismo di questi luoghi, le Dolomiti patrimonio dell’Unesco, e la violenza che hanno subìto.
Se all’inizio Arena e Caneve hanno coinvolto circa cinquanta artisti e ricercatori in iniziative site specfic e di breve durata, dal 2016 il progetto si è trasformato nell’esplorazione di sei autori: oltre ad Arena e Caneve, Céline Clanet, François Deladerrière, Petra Stavast e Jan Stradtmann. Grazie anche al sostegno della provincia di Treviso e del ministero della cultura, questi lavori sono stati portati a termine e ora sono esposti allo Spazio Labò di Bologna, in una mostra curata da Laura De Marco e aperta fino al 13 dicembre.
Durante le loro residenze sul territorio, le fotografe e i fotografi di Calamita/à hanno cercato dei percorsi personali per raccontare un evento del passato, ma presente attraverso le ferite che ha lasciato dietro di sé. Hanno seguito delle tracce per costruire una storia, partendo da spunti diversi come il paesaggio, le testimonianze dei superstiti, gli archivi, i dati. Veri e propri investigatori che si muovono tra passato, presente e futuro affinché la ricerca e la riflessione collettiva, non solo sul Vajont, non ci lasci indifferenti tra una catastrofe e l’altra.
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