C’è una parola che sta prendendo sempre più piede nei dibattiti in Israele: “paria”. Oggi una parte degli israeliani teme che il loro paese lo diventi sulla scena internazionale a causa della guerra impietosa condotta nella Striscia di Gaza, dei bambini uccisi e della fame usata come arma. Diciannove mesi fa, dopo il 7 ottobre 2023, tutto questo era impensabile, ma ora le cose stanno diversamente.
Le critiche più dure provenienti dall’Europa alimentano questo sentimento. Quello che è successo il 21 maggio in Cisgiordania, dove l’esercito ha sparato contro una delegazione di diplomatici europei, non migliora certo le cose.
Le misure di ritorsione, ancora lontane e limitate, hanno comunque un effetto sul dibattito all’interno dello stato ebraico, e per molti sono la dimostrazione del fatto che una guerra senza fine a Gaza non è nell’interesse del paese.
Questo dibattito, pressoché impossibile dopo il 7 ottobre, oggi occupa uno spazio sempre più vasto. Le manifestazioni di massa organizzate negli ultimi mesi, più che la fine della guerra, avevano come obiettivo quello di chiedere che il governo mettesse il destino degli ostaggi prima di qualsiasi altra considerazione.
Ma ora la situazione è cambiata. Secondo i sondaggi la maggioranza degli israeliani è favorevole all’interruzione delle ostilità, cosa che non impedisce al governo di intensificare le operazioni militari, contando sulla maggioranza in parlamento. Eppure se oggi in Israele si tenessero le elezioni, la coalizione di Netanyahu le perderebbe, come conferma un sondaggio pubblicato il 21 maggio.
La società civile si esprime in questo modo. Oggi metà dei riservisti non risponde alla chiamata, mentre nel paese aumenta il numero di chi invoca apertamente la fine di una guerra di cui molti non capiscono l’obiettivo né tanto meno i metodi. La questione è diventata morale.
Sul quotidiano Haaretz, espressione di una posizione progressista minoritaria, l’ufficiale riservista dei paracadutisti Einav Lévy, che dall’8 ottobre 2023 è impegnato nella lotta contro Hamas, manifesta tutti i suoi dubbi. “Un giorno mio figlio mi chiederà: ‘Papà, come ti sei comportato? Quali decisioni hai preso?’. Voglio poterlo guardare negli occhi e dargli una buona risposta, basata sui princìpi. Arriverà il tempo in cui ci chiederanno conto di ciò che abbiamo fatto. Dobbiamo metterci nella condizione di poter rispondere”.
Yair Golan, un altro ufficiale riservista, leader del Partito democratico di sinistra sionista, non ha usato giri di parole: “Israele diventerà uno stato paria come il Sudafrica dell’apartheid se non dimostrerà di potersi comportare come uno stato sano. Un paese sano non fa la guerra contro i civili e non ammazza i bambini”. Le sue dichiarazioni hanno scatenato un putiferio.
Al momento tutto questo non preoccupa Netanyahu, ma Israele ha alle spalle una lunga storia di guerre cominciate con il consenso generale e terminate con un movimento pacifista. L’operazione in Libano del 1982 ne è il miglior esempio, sfociata nella più grande manifestazione della storia del paese. Non siamo ancora arrivati a questo punto, ma bisogna assolutamente prestare attenzione al risveglio dell’opinione pubblica israeliana, che si oppone alla follia guerriera che si abbatte su Gaza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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