“Se vuoi capire davvero cosa sta succedendo alla pianura padana, o almeno a un suo pezzo, devi venire da me”. Giuseppe Trecate parla poco, ma quando lo fa va dritto al punto. Lo incontro in un giorno di febbraio fra i trattori radunati per protestare contro l’Unione europea. La pianura ribolle: gli agricoltori, allo stremo, hanno deciso di farsi sentire. Con il marchio di Riscatto agricolo organizzano blocchi stradali, attraversano le città con i loro macchinari . Hanno già circondato a più riprese la sede del consiglio regionale lombardo, pretendendo di essere ascoltati.
Che sta succedendo? Com’è possibile che il granaio d’Italia, l’area agricola più produttiva del paese, sia in crisi? “Se continua così, entro l’anno prossimo il 30 per cento delle aziende chiude”, si legge nei loro comunicati. Ma di quali aziende parlano? Chi c’è dietro quella percentuale?
Per scoprirlo mi metto in viaggio lungo le piatte distese di questa pianura, che a vederla sembra tutta uguale, ma tra le pieghe nasconde differenze sottili, storie uniche, esperienze discordanti.
La prima tappa è la cascina di Giuseppe Trecate in Lomellina, l’estremo confine sudoccidentale del gigantesco bacino del Po. Tra le province di Pavia e di Novara, perennemente indecisa se appartenere al Piemonte o alla Lombardia, è una zona traboccante d’acqua, dove da secoli si produce riso.
Per arrivare al podere di Trecate bisogna uscire dalle strade dritte come righelli che tagliano la pianura, abbandonare la sicurezza dei cartelli e affidarsi ai fossi, alle capezzagne, alla memoria dei nomi che non compaiono più sulle mappe. Il navigatore qui smette di essere utile: indica percorsi che finiscono in un canale, ti lascia in mezzo a una risaia. Per questo Giuseppe preferisce venirmi a prendere alla stazione di Novara. “Così non rischi di fare il bagno”, scherza.
Arriva con un pick-up che racconta molto di lui: la carrozzeria intrisa di graffi, l’odore persistente di fieno e gasolio, il cassone che porta i segni di mille giornate nei campi. Anche il suo cappellino da baseball consunto e la stretta di mano asciutta segnalano la stessa cosa: un uomo diretto, senza fronzoli, abituato alla concretezza più che alle parole.
La cascina di Giuseppe non è un’azienda agricola nel senso classico del termine. Sembra piuttosto un organismo vivente . Ci sono cortili che sanno di polvere e fango, angoli ricolmi di ferri e bulloni, un’officina che pare un laboratorio alchemico. C’è il silenzio della campagna, interrotto solo dal grido degli aironi e dal gorgoglio dell’acqua che scorre nei canali.
Giuseppe semina il riso come si faceva una volta: allagando i campi. Non in asciutta, come ormai fanno quasi tutti. “È più faticoso – spiega – perché devi entrare in acqua con il trattore. Ma così usi meno chimica: l’acqua è un diserbante naturale”.
Il mattino dopo, all’alba, mi porta a seminare. La luce obliqua del sole nascente si riflette sulle superfici d’acqua che ricoprono i campi. Giuseppe carica un sacco di sementi sul retro del trattore cingolato, entra nel terreno allagato e avanza in linea retta. Dietro, la macchina lancia i chicchi di riso nell’aria come piccoli archi scintillanti. “Una volta servivano due uomini con due aste, una a ogni estremità del campo, per farti andare dritto. Oggi basta il gps”.
Per fare tutto questo lavoro, non usa l’acqua del consorzio di bonifica, ma quella delle risorgive, che risale naturalmente dalla falda. Sono rimasti in pochissimi a praticare questo metodo, che è più faticoso, perché richiede una manutenzione continua dei canali. “Ma poi nel 2022, quando c’è stata la siccità, noi avevamo l’acqua e i nostri colleghi erano a secco”.
Giuseppe mi porta a vedere un argine. Lo indica con un orgoglio trattenuto, come chi mostra un cimelio di famiglia. Non è un semplice terrapieno, ma una costruzione collettiva: lui e altri quattro contadini – “gli ultimi pazzoidi della zona che usano le risorgive” – lo hanno costruito con le proprie mani. Hanno fatto venire dei grossi massi con un camion dalle Alpi e con questi hanno rafforzato gli argini alla bocca d’uscita della falda, che rischiava di essere sepolta dal fango. “Abbiamo speso ventimila euro, ma ne è valsa la pena”. E quando gli chiedo perché non hanno fatto un argine in cemento, mi guarda come se avessi bestemmiato. “Perché era brutto. Io non voglio la bruttezza nel luogo dove vivo”.
L’agricoltura conservativa
Tra un appezzamento e l’altro di Giuseppe – la sua è un’azienda di più di cento ettari, di media grandezza da queste parti – c’è un bosco. Un bosco vero, non i soliti filari ornamentali da rotatoria. Quasi stona, in questa pianura che si estende senza fine, dove gli alberi sono considerati intrusi, ostacoli da eliminare. Altri probabilmente lo avrebbero tagliato, l’avrebbero arato, spianato, magari ci avrebbero piantato mais fino al margine . Lui invece quel bosco lo cura. Ci entra piano, come se entrasse in chiesa. “Ci sono i tassi”, dice. ”I conigli selvatici. C’è perfino una coppia di tarabusini”.
“Tarabusini?”, gli chiedo.
”Vai a vedere su internet cosa sono”, mi risponde come chi custodisce un segreto.
Intorno ai suoi campi non c’è glifosato. Non c’è un aspetto ordinato da catalogo. Ci sono erbacce. Ma anche ali. Ali che migrano, che tornano, che nidificano. Rane, salamandre, suoni che nei campi vicini non si sentono più. Perché intorno, invece, tutto è perfettamente diserbato. Liscio. Silenzioso. Inodore.
Camminiamo tra i solchi e vediamo i colleghi sui trattori. Motori accesi, seminano in asciutta, sui campi ben arati. Rapido, efficiente, pulito. Giuseppe li guarda senza giudicare. “Se tu intensivizzi, ti sbatti meno” dice. “Ma io voglio lasciare a mio figlio una terra che sia fertile almeno quanto quella che mi ha lasciato mio padre. Sarò arcaico, ma io amo fare un’agricoltura conservativa”.
Giuseppe lascia crescere le erbe spontanee lungo il bordo dei campi, usa l’acqua di falda, custodisce un bosco che per lui non è un intralcio ma una ricchezza. Vuole che la sua azienda resti un ecosistema vivo, e non una distesa sterile governata solo dalla logica del rendimento. È un modo di fare che ha appreso dal padre e che porta avanti con naturalezza: per lui coltivare la terra vuol dire anche custodirla.
Gli chiedo: “Con questa tua agricoltura conservativa guadagni di più?”.
“Zero. Nemmeno un centesimo”. La biodiversità che tutela, la falda che cura, il suolo che rigenera, nessuno glieli paga veramente. Potrebbe chiedere qualche incentivo all’Unione europea, nell’ambito dei cosiddetti eco-schemi ambientali. “Ma sono troppe scartoffie, e poi io penso che questo modo di coltivare debba essere parte del nostro lavoro. Dovremmo farlo e basta. Non ce lo devono dire i signori di Bruxelles”.
Come tutti i trattoristi, odia l’Unione europea. Dice che ogni anno c’è una nuova sigla da imparare, un nuovo modulo da compilare, una mappa da ridisegnare. Sostiene che i grigi funzionari della Commissione non hanno idea di come si coltivi la terra. E che la politica agricola comune (Pac), il meccanismo di sovvenzioni con cui l’Unione sostiene l’agricoltura, è un sistema malato, che andrebbe smantellato.
Giuseppe non si definisce un imprenditore agricolo, ma un coltivatore diretto. Non fa impresa: niente margini operativi, niente business plan o proiezioni triennali. Ogni anno fa i conti a modo suo: gli basta guardare l’estratto conto in banca. È lì che trova i numeri che contano davvero. “Quando va bene, porto a casa ventimila euro”, dice senza rancore. Questo è il valore economico del suo lavoro: ventimila euro per 365 giorni all’anno e per un’azienda agricola di cento ettari e più.
Il riso di Giuseppe – seminato nelle acque di risorgiva, curato con poca chimica e molta pazienza – sul mercato vale poco. Perché il prezzo non dipende dalla qualità, ma da altri fattori. L’arrivo del riso asiatico, che costa nettamente meno, ha abbassato l’asticella. E poi ci sono le riserie e la grande distribuzione, che comprimono i margini fino all’osso.
“Una volta”, ricorda Giuseppe, “si divideva così: un terzo al produttore, un terzo all’industriale trasformatore, un terzo al distributore”. Oggi al produttore resta appena il dieci per cento: di che coprire a malapena semina, gasolio e manutenzione.
Così lui vive un paradosso bruciante: a tenerlo in piedi non sono i frutti del suo lavoro, ma i contributi europei. Lui che detesta l’Unione, sopravvive grazie alla Pac, che con i cosiddetti pagamenti diretti gli garantisce circa 300 euro per ettaro.
Per Giuseppe è tutto sbagliato: “Abbiamo creato un mondo di assistiti, che non producono valore, ma cercano in tutti i modi di accaparrarsi i sussidi”. Così succede che l’agricoltura è al collasso. Resistono solo i più grandi, quelli capaci di fare economie di scala. Poiché la Pac ti paga a superficie, più ettari hai più soldi avrai. E più soldi avrai più avrai la possibilità di comprare altri terreni.
Giuseppe è una mosca bianca e lo sa. Continua a coltivare riso come si faceva un tempo, anche se guadagna pochissimo. Ma intorno a lui e in tutta la pianura il paesaggio cambia. I piccoli o medi coltivatori scompaiono. Molti mollano, vendono a grandi gruppi, se non addirittura a multinazionali dell’energia che coprono i campi con distese di pannelli fotovoltaici. Secondo i dati del censimento più recente, negli ultimi vent’anni il numero delle aziende agricole in Italia è più che dimezzato. Un cambiamento di paesaggio generalizzato, più marcato in collina e in montagna, ma che ormai coinvolge anche le aree di pianura più produttive.
La responsabilità della Pac
“Alla radice c’è un passato di scelte storte”, dice con tono assertivo Franco Sotte, ex professore di economia agraria che ha dedicato una vita a studiare la Pac. Da quando è in pensione vive in una villetta alle porte di Pesaro. Nel giardino coltiva un piccolo frutteto: mele antiche, pere dimenticate, ciliegi da salvare dall’oblio.
Camminando tra gli alberi che descrive con affetto come se fossero dei figli, ricostruisce la storia della politica agricola comune. “La Pac ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita e nel consolidamento dell’Unione europea. Per decenni è stata l’unica politica davvero comune. E i meriti non mancano: ha garantito in pochi anni la sicurezza alimentare a un continente reduce da guerre e carestie”. Ma poi col tempo il suo volto è cambiato. Quello che doveva essere un salvagente si è trasformato in uno strumento di omologazione: premiando la quantità, non la qualità; le superfici, non le storie; le aziende grandi, non le piccole.
Penalizza soprattutto l’agricoltura che concentrando molto lavoro su superfici ridotte ottiene prodotti di qualità e ad alto valore aggiunto. Come avviene in Italia, che in Europa pesa poco in termini di ettari, ma primeggia per occupazione agricola e valore creato per unità di superficie. “Una ricerca ha stimato che, se i fondi fossero ripartiti non solo sulla base degli ettari ma anche considerando occupazione e numero di aziende, l’Italia avrebbe dovuto – e dovrebbe – ricevere circa il 46 per cento di risorse in più”.
Il risultato, osserva Sotte, è un sistema che ha spinto molti a “coltivare il contributo” più che il campo. “La verità è che gli aiuti Pac sono come una droga”, dice. “Specie se assunti per tanti anni, creano dipendenza e attenuano lo spirito imprenditoriale. Invece di innovare, diversificare, riqualificare la produzione, ci si abitua a incassare il sostegno”.
“Abbiamo provato a diventare i Paesi Bassi, la Germania, la Francia del grano e del latte”, aggiunge, “dimenticando che eravamo il paese dei mille orti, delle vigne arrampicate sui colli, dei fichi, delle melanzane, del basilico e dell’olio. Un mosaico fragile ma prezioso, che negli anni è stato spianato e convertito in una catena di montaggio all’aperto”.
Sotte insiste: l’agricoltura non è solo produzione, ma anche custodia di paesaggi, biodiversità, comunità. “Abbiamo abbandonato le aree interne e abbiamo prediletto le grandi superfici”.
E oggi il sistema sta mostrando crepe anche nel suo cuore pulsante, la pianura padana. Non solo perché i contributi della Pac si assottigliano, ma perché quel modello agricolo, costruito sull’idea della massima produttività, oggi si trova davanti a dei limiti strutturali.
L’hotspot climatico
Da queste parti, l’agricoltura deve fare i conti con un clima sempre più instabile. La valle del Po, pianura alluvionale per natura, si rivela fragile di fronte agli scossoni atmosferici. Grandinate improvvise abbattono i raccolti, insetti alieni aggrediscono colture già indebolite, la siccità si alterna a piogge torrenziali che in poche ore cancellano il lavoro di settimane. In Emilia-Romagna la coltivazione della pera, un tempo vanto regionale, è ormai ridotta ai minimi termini: la produzione è crollata del 70 per cento in dieci anni. Lo stesso destino hanno avuto le pesche.
Dal 2021 a oggi, la regione ha conosciuto due anni di siccità intensa e varie alluvioni, tra cui quelle devastanti del maggio 2023 che hanno colpito la Romagna.
Dal suo podere di Boncellino, in provincia di Ravenna, Maria Gordini ha vissuto la catastrofe in diretta. Settant’anni appena compiuti, la racconta accanto al suo frutteto ancora sepolto dal fango: “All’inizio sembrava il solito temporale. Qui siamo abituati. Quando piove si sta a casa e si aspetta”. Ma quella volta non è andata come le altre. Il Lamone, che scorre a cento metri da lì, è esondato. L’acqua è salita rapidamente. Maria e il marito hanno aiutato il figlio e la nuora, che vivevano con loro, a mettere i bambini sul piano rialzato. I soccorsi erano impegnati altrove: Ravenna, Faenza, tutta la Romagna. La famiglia ha passato quattro ore di attesa, tra giochi e disegni per non far spaventare i piccoli. Alla fine, una barchetta a motore — “la barchetta della palude”, la chiama Maria — li ha portati via. Il figlio, la nuora e i nipoti non sono più tornati, hanno preferito spostarsi altrove. Maria e il marito sì.
E nei mesi successivi hanno affrontato altre due alluvioni: una due settimane dopo (un altro ciclone) e poi ancora nell’ottobre 2024. Entrambe le volte sono riusciti a scappare per tempo , il sistema di allerta ha funzionato. Ma al ritorno hanno trovato la casa sventrata, i campi coperti di fango. Maria mi mostra il frutteto devastato: tronchi abbattuti, sterpaglie ovunque. Racconta dei suoi meli piantati a uno a uno, sorretti da vecchi pali di legno, e divelti dalla furia dell’acqua.
Oggi Maria è ancora lì, a togliere il fango a mano, aspettando una bonifica che non può permettersi e che dovrebbe fare lo stato. Non piange quando racconta la distruzione. Le si inumidiscono gli occhi solo quando le chiedo se ha la forza di ripiantare. Dice di sì, ma si vede la stanchezza, l’età che pesa.
Maria è una tra mille. Una voce tra molte, simbolo di una tragedia più ampia. L’alluvione che ha sommerso la Romagna ha distrutto raccolti, campi e vite. Ha provocato quattordici morti. E ha ricordato che, sotto i colpi del cambiamento climatico, chi ha meno strumenti paga di più.
Il paesaggio più brutto del mondo
Eppure le alluvioni e le siccità non sono fulmini a ciel sereno. Arrivando da lontano spinte da un clima che cambia, trovano qui un corpo debole, un organismo privo di difese. “Perché abbiamo steso campi sterili come lamiere, distese tutte uguali, incapaci di trattenere, di respirare, di mediare tra cielo e terra. Abbiamo trasformato la pianura padana nel paesaggio più brutto del mondo”. A pronunciare questo atto d’accusa è Duccio Caccioni, agronomo e direttore marketing e qualità del Centro agro-alimentare di Bologna (Caab).
Oggi, la valle del Po – che un tempo era un alternarsi di paludi, boschi golenali, risaie e canali – somiglia sempre più a un deserto meccanico, dove l’acqua, quando arriva, non trova nulla che la accolga. Corre, distrugge, travolge. Oppure non arriva affatto. E allora tutto si sgretola, si ferma, si svuota.
Il direttore snocciola numeri che raccontano bene il processo. “Negli ultimi sessant’anni l’Italia non ha perso solo ettari coltivati: ha perso il paesaggio. Nel 1960 le coltivazioni coprivano 20,9 milioni di ettari; oggi ne restano 12,4. Otto milioni e mezzo di ettari scomparsi: una superficie pari a Lombardia, Piemonte e Sicilia messe insieme. Di questi, 1,3 milioni – quanto tutta la Campania – sono stati letteralmente coperti dal cemento”.
Dietro queste cifre si legge la metamorfosi di uno spazio. La pianura è stata invasa dallo sprawling urbano: le periferie delle città si sono allungate nelle campagne, capannoni industriali, centri commerciali e della logistica hanno colonizzato ogni spazio libero, sul modello statunitense. Nel frattempo gli spazi agricoli si sono standardizzati: le terre basse diventavano grandi monocolture di mais per alimentare il sistema degli allevamenti intensivi, e le terre di montagna e di collina sono state gradualmente abbandonate. “Oggi l’Italia sembra muoversi su due piani paralleli: in basso, territori sovrappopolati, inquinati, caotici; in alto, montagne e colline spopolate, campi incolti, borghi abbandonati”. E l’abbandono provoca fragilità. “Inesorabilmente, quelle montagne incustodite, quei territori non curati, crollano. L’urgenza sarebbe ripopolare: fare in modo che i sussidi della Pac non premino le grandi superfici, ma l’agricoltura eroica delle aree di montagna, i piccoli che presidiano il territorio”.
Bottiglie di birra contro i calabroni
Gianni Fagnoli è uno di questi eroi di montagna, uno dei pochi rimasti. Maglietta dei Metallica, passo lento, sguardo pacato, non è un eremita, ma un uomo che ha scelto la solitudine come forma di coerenza. Per anni ha fatto il facchino, vita da capannone e sveglia all’alba. Nel 2015 ha deciso di cambiare: ha lasciato tutto e si è rifugiato a Rocca San Casciano, sull’Appennino, a un’ora di macchina e un cumulo di curve da Forlì.
Tre ettari appena, ma vissuti come un giardino sacro. Centinaia di alberi di varietà antiche, difesi con metodi artigianali, come le bottiglie piene di birra appese ai rami per attirare e stordire i calabroni. Una clientela piccola e fedele lo segue, attratta dalla sua idea radicale: “La mia frutta non è a chilometro zero, è a giorno zero. Te la do il giorno stesso in cui la raccolgo”.
Gianni pian piano costruisce il suo business. Le cose cominciano a girare. Poi, nel 2023, arriva anche lì l’alluvione. Pioggia senza sosta, frane, torrenti che esplodono. Per due settimane non riesce nemmeno a salire al campo. Quando ci arriva, non c’è più nulla: il suo piccolo eden è sepolto dal fango. Non si arrende: spalando a mano, con la carriola, ripianta, ricostruisce. Due anni dopo, lentamente, gli alberi tornano a fiorire.
Ma intorno a lui, le colline si svuotano. Le case chiudono, i campi sono abbandonati, gli amici se ne vanno. Un collega di un’azienda agricola vicina, dopo l’alluvione, ha mollato tutto e si è messo a lavorare come spazzino. Gianni no, resiste. Ma lo fa da solo.
Perché lo stato non lo ha aiutato: nessun indennizzo, nessun rimborso. Gianni non ha ottenuto i ristorni dall’AgriCat, il fondo mutualistico nazionale creato per indennizzare gli agricoltori colpiti da eventi catastrofali. I satelliti non hanno rilevato acqua stagnante nei suoi terreni in pendenza e hanno respinto la richiesta. Come se lì l’alluvione non fosse mai passata. Così lui è ripartito solo grazie alle donazioni dei clienti più affezionati. E l’Europa? “Sì”, dice con un sorriso amaro. “Dalla Pac prendo 1.200 euro all’anno. Più 128 di indennità compensativa”.
Il paradosso è stridente. Gianni custodisce biodiversità, sostiene un territorio, tramanda un sapere agricolo che rischia l’estinzione. Eppure riceve dalla politica agricola comune meno di 1.300 euro all’anno. È l’esempio concreto di quanto racconta il professor Franco Sotte: la Pac è diventata un meccanismo che premia le superfici e non i valori. Favorisce chi ha grandi estensioni, penalizza chi lavora su pochi ettari e produce qualità.
Gianni è l’immagine vivente di un presidio. Un presidio che resiste alle frane, al mercato, all’indifferenza delle istituzioni. Un contadino solo, che con la sua ostinazione dimostra quanto sia fragile, e allo stesso tempo vitale, l’agricoltura che la Pac ha lasciato ai margini.
In questa pianura che una volta era produttiva e oggi boccheggia, la politica agricola comune mostra le sue crepe. La presidente della commissione Ursula von Der Leyen ha annunciato a Bruxelles una riduzione del 20 per cento dei fondi della Pac per il 2028-2034. E ha espresso l’intenzione di far gestire questi fondi ai singoli governi nazionali. .
“Sarebbe un disastro perché avremmo 27 agricolture diverse in competizione tra loro”, sottolinea Sotte. “Ma è indubbio che la Pac vada riformata e che così com’è non funziona. Si sta sfaldando per la sua incapacità di stare al passo con i tempi e per l’inadeguatezza delle istituzioni e delle organizzazioni che devono gestirla ”.
La Pac, con i suoi 386,6 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, rappresenta il 29 per cento del bilancio europeo. Ma la distribuzione dei sussidi è estremamente iniqua: il 20 per cento dei beneficiari riceve attualmente l’80 per cento dei contributi. Chi ha più terra riceve più fondi. Questo incoraggia la concentrazione fondiaria, con le grandi aziende che inglobano quelle piccole. In tutta Europa. E anche in Italia. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), il numero di aziende agricole in Italia si è dimezzato dal 2000 al 2020.
Mentre a Bruxelles si ragiona del futuro dell’agricoltura europea, la pianura padana resta lì, immensa e stanca. La guardi e sembra eterna, ma dentro porta i segni di un corpo malato: campi abbandonati, frutteti spazzati via dall’acqua, le colline circostanti che si svuotano. Eppure, in mezzo a questo paesaggio ferito, ci sono ancora uomini e donne che resistono: Giuseppe con i suoi campi allagati seminati come una volta, Maria che difende il ricordo del suo frutteto sommerso, Gianni che ricostruisce pezzo per pezzo la sua collina.
Non fanno rumore, non hanno la forza delle lobby, non spostano voti. Ma raccontano che un’altra agricoltura è possibile, se qualcuno decide di sostenerla davvero. Perché, senza un quadro politico adeguato, rischiano di restare episodi isolati.
“Stiamo assistendo all’ultimo grido d’allarme di una civiltà contadina in via d’estinzione”, rileva l’agronomo Duccio Caccioni. La sua analisi è netta: la crisi non è congiunturale, ma sistemica. “Serve un cambio di direzione, altrimenti la perdita sarà doppia: una ricchezza culturale e ambientale da un lato, e la nostra sovranità alimentare dall’altro”.
E allora la domanda rimane aperta: la Pac del futuro saprà leggere questa crisi e cambiare rotta, o continuerà a sostenere un modello che rischia di fagocitare se stesso?
Questo articolo fa parte dell’indagine coordinata da Internazionale con il supporto della borsa di studio Bertha challenge. La versione inglese è pubblicata dal Green european journal.
Le storie raccontate in quest’articolo fanno parte, insieme ad altre, dello spettacolo “Penuria padana” di Stefano Liberti, musiche di Pasquale Filastò, con la cantante Fabia Salvucci che sarà in scena al festival di Internazionale a Ferrara il 3 ottobre 2025 alle 18.30.
Gli altri articoli della serie:
- Chi specula sull’energia ai danni dell’agricoltura in Emilia-Romagna
- Il ricatto dei supermercati all’agricoltura italiana
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