Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2017 nel numero 1188 di Internazionale.
Se doveste attribuire un prezzo alla vostra vita, sareste in grado di farlo? Quale sarebbe? Da dove comincereste? Potremmo pensare che considerare la vita in questi termini appartenga alle epoche più buie della storia e oggi sia confinato al mondo criminale del traffico di esseri umani. Ci vergogniamo al ricordo dei tempi in cui uomini e donne potevano essere comprati e venduti, attribuendogli un valore legato esclusivamente al profitto che il loro lavoro poteva produrre.
A metà dell’ottocento, prima che nel sud degli Stati Uniti venisse abolita la schiavitù, “un bracciante giovane e vigoroso” poteva essere acquistato per circa 1.100 dollari, che equivalevano più o meno a 30mila di oggi. Altri esseri umani venivano venduti e comprati per molto meno.La ripugnanza che ci provoca l’idea di attribuire un valore economico alle persone segue il principio su cui si basano documenti come la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, secondo il quale tutte le vite umane sono equivalenti, e ci piace credere che sia davvero così. Eppure violiamo regolarmente questo decantato principio.
La letteratura scientifica e i mezzi d’informazione sono pieni di esempi in cui non a tutte le persone viene attribuito lo stesso valore: i giovani valgono più dei vecchi, quelli come noi più di quelli diversi da noi, le vittime con un nome più delle masse senza volto. Questo principio si traduce anche in termini economici. È così che distribuiamo le risorse quando sono limitate, decidendo quanto investire sulla sicurezza delle strade, sui risarcimenti alle famiglie dei soldati e dei civili uccisi in guerra o delle persone incarcerate ingiustamente.
A seconda di chi stabilisce il prezzo e perché, le cifre possono variare, anche di molto. La vita umana non ha un unico prezzo. Ne ha cento diversi. Una di queste cifre indica quanto bisognerebbe spendere per impedirci di morire. Per decidere quali interventi salvavita vale la pena di finanziare, i governi partono da un fattore chiamato valore statistico della vita (Vsv), o come lo considera il ministero dei trasporti britannico, un valore della riduzione della probabilità di morte.
“Non è la quantità di denaro che una persona accetterebbe in cambio di una morte sicura”, dice W. Kip Viscusi della Vanderbilt university del Tennessee, che ha contribuito a introdurre il concetto di Vsv negli enti statunitensi. “Riflette solo l’atteggiamento nei confronti di un rischio di morte anche minimo”. Per dirla più semplicemente, è il tipo di calcolo che facciamo quando dobbiamo decidere se vale la pena di spendere qualcosa di più per un’auto che ci garantisce una maggiore sicurezza, ma su più vasta scala.
Prendiamo, per esempio, il rischio di contrarre un’infezione da salmonella. Se in media la gente è disposta a pagare sette dollari per ridurre quel rischio a una possibilità su un milione, allora il Vsv è di sette milioni. Questo sarebbe dunque il dato che la Food and drug administration, l’ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, userebbe per giustificare il costo dei suoi sforzi per impedire un’epidemia di salmonella.
Unità di misura
Il Vsv adottato dai vari paesi tende a variare in base alla loro ricchezza (come termine di riferimento, l’Ocse consiglia agli stati membri una cifra che va dagli 1,5 ai 4,5 milioni di dollari). C’è poi il problema di come stabilire quanto sarebbero disposte a pagare le persone per una certa riduzione del loro rischio di morte.
Negli Stati Uniti gli economisti calcolano il Vsv, che lì in media è di circa 9 milioni di dollari (8,4 milioni di euro), soprattutto in base a quello che le persone fanno, per esempio al salario che sono disposte ad accettare per un lavoro rischioso. Nel Regno Unito, dove si preferisce semplicemente chiedere a un campione di cittadini quanto sarebbero disposti a pagare, il ministero dei trasporti usa come base 1,8 milioni di sterline (circa due milioni di euro).
Un’indagine condotta nel 2009 in Canada ha confrontato i due metodi e ha riscontrato che quando si basa su salari e rischi, il Vsv vale circa un terzo di più. Partendo da un’analisi simile, l’Office of best practice regulation australiano suggerisce un Vsv di 4,2 milioni di dollari australiani (circa 3 milioni di euro).Il valore statistico di una vita varia anche in base alle cause di morte prese in considerazione; negli Stati Uniti è andato da 200mila dollari a più di 13 milioni: ridurre il rischio che un minatore morisse in una miniera valeva di più che ridurre il rischio di morte a causa di un incendio provocato da una fodera del divano infiammabile.
Quando si parla di sanità, le cose si fanno ancora più complicate. Per decidere se un intervento è sensato, le autorità sanitarie e le compagnie assicurative considerano quanto in termini di vita soddisfacenti si può ottenere con quel denaro. L’unità di misura che usano è l’Anno di vita corretto in funzione della qualità della vita (Qaly): se 1 è una vita in perfetta salute e 0 è la morte, quattro anni di salute così così equivalgono a due Qaly. Nel Regno Unito, un anno in buona salute vale dalle 20 alle 30mila sterline. Questa soglia è fissata dal National institute for health and care excellence (Nice), che decide quali nuovi farmaci o trattamenti il servizio sanitario nazionale britannico può fornire ai cittadini. Per calcolarla, considera il costo per Qaly di una nuova cura rispetto a quella già esistente.
Se un nuovo farmaco garantisce un Qaly in più per ogni 20mila sterline spese in aggiunta, vale la pena di usarlo.“Il Nice parte da questo incremento”, dice Karl Claxton, un esperto di economia sanitaria dell’università di York, nel Regno Unito, che ha fatto parte del comitato di valutazione del Nice dal 1999 al 2012. “Considera i costi e i benefici aggiuntivi e decide se vale la pena”. Anche se il Nice fa eccezione per i farmaci particolarmente innovativi e le cure di fine vita, se il costo di un trattamento supera di molto le 30mila sterline è meno probabile che lo approvi. Il sofosbuvir, il farmaco miracoloso per la cura dell’epatite C (il cui nome commerciale è Sovaldi), è stato approvato.
Ma il bevacizumab (Avastin), che somministrato insieme alla chemioterapia potrebbe garantire ai malati di cancro circa tre mesi di vita in più, no, perché costa minimo 82mila sterline per Qaly. La soglia usata dal Nice a volte è oggetto di controversie. Questo è in parte dovuto al fatto che, come ha ammesso il suo ex presidente Michael Rawlins, non si basa tanto su “ricerche empiriche” quanto sul “giudizio collettivo degli esperti di economia sanitaria consultati in tutto il paese”. Dato che la soglia era stata introdotta nel 1999, successivamente si è cercato di agganciarla a ricerche più solide. Ma è rimasta quella perfino con l’inflazione. In paesi come il Canada e la Nuova Zelanda non esiste una soglia esplicita. Ma quando si analizzano le decisioni sulla distribuzione delle risorse, in pratica emerge che è intorno ai 15mila dollari per Qaly.
Negli Stati Uniti la situazione è diversa: se ritiene che il trattamento sia “ragionevole e necessario”, il programma governativo Medicare non considera il costo. Questo principio può valere, per esempio, anche per un trattamento di terza linea del cancro da 900mila dollari per Qaly, quindi non c’è da meravigliarsi se gli Stati Uniti spendono un quinto del loro prodotto interno lordo per la sanità. Le assicurazioni private non sono obbligate a stare al passo con quelle pubbliche, e molte tengono chiaramente conto della spesa: così più un farmaco è efficace rispetto al costo, meno i loro clienti devono pagare di tasca loro.
Ma questi sistemi non sono sempre trasparenti, e il programma Medicare è ancora di gran lunga il maggior finanziatore della sanità del paese.In qualche modo Medicare prova a ridurre i costi, o almeno a ottenere i massimi benefici, dice James Chambers del Tuft medical center di Boston. Per esempio può decidere di pagare i farmaci solo per i malati più gravi. La legge in questo non è chiara. “Molti pensano che non si può stabilire un prezzo per la vita”, dice Louise Russell, un’economista della Rutgers university, nel New Jersey, specializzata in politiche sanitarie. “Il che significa che non puoi ammettere di essere costretto a farlo”.
Attribuire un valore alla vita di qualcuno è ancora più difficile nel momento in cui muore. Nei casi in cui il pericolo di morte fa parte del lavoro stesso ci sono alcuni criteri guida, ma resta sempre un gran numero di variabili. I militari statunitensi che muoiono in servizio hanno diritto a una “indennità di morte” di centomila dollari esentasse, a un indennizzo assicurativo di 400mila dollari e a una serie di altri benefici come il pagamento della sepoltura, dell’assistenza sanitaria e degli studi per i loro figli. Secondo alcune stime, complessivamente si va da 250mila a più di 800mila dollari. Nel Regno Unito la situazione è abbastanza simile, anche se molto dipende dal salario che la persona percepiva e dalla sua età.
Per gli agenti di polizia e i vigili del fuoco è prevista una combinazione simile di pensioni, indennizzi, assicurazioni sulla vita, assicurazioni sindacali e fondi statali. Un programma gestito dal dipartimento di giustizia, prevede che alle famiglie sia erogata la somma di 339.881 dollari. Per le morti fuori servizio le variabili sono ancora maggiori. Se l’indennizzo viene stabilito in un processo per omicidio colposo, la valutazione è abbastanza logica: si stima il mancato reddito, le spese mediche affrontate, quelle per il funerale e così via.
Ma per quanto riguarda il dolore e la perdita di una persona cara, c’è una gran confusione. I tribunali britannici limitano l’indennizzo per il lutto a un totale di 12.980 sterline, molto meno della soglia più bassa stabilita dal Nice per un anno di vita dignitosa. Questo è dovuto alla cifra iniziale di 3.500 sterline stabilita dal parlamento nel 1982. “È una cifra molto arbitraria”, dice Laura Hoyano, una specialista di diritti umani dell’università di Oxford. “E così bassa da diventare offensiva”.
Il prezzo del dolore
Negli Stati Uniti l’ammontare dell’indennizzo dipende da ogni genere di fattori, tra cui la causa di morte e l’assicurazione stipulata dai responsabili, e anche se la cifra è stata stabilita da un giudice, da una giuria o da due avvocati seduti a un tavolo. Ci sono molte incongruenze, dice Maek Geistfeld della facoltà di giurisprudenza dell’Università di New York. “Come si fa a valutare la sofferenza di una persona che perde prematuramente il coniuge?”, dice. “Vale centomila dollari o cento milioni?”. I giudici dicono alle giurie che non c’è niente di prestabilito, quindi i giurati tendono a cercare una cifra di riferimento. “Se qualcuno ha pagato centomila dollari di spese mediche, possiamo triplicare quella cifra base, e dire che il dolore e la sofferenza valgono 300mila dollari”.
Le leggi poi cambiano da stato a stato. I genitori di Brandon Holt, un bambino di sei anni ucciso con una pistola da un altro bambino nel 2013, hanno avuto un indennizzo di 572.588 dollari. L’incidente è avvenuto nel New Jersey, dove la legge sugli omicidi colposi non consente alle giurie di prendere in considerazione il dolore della famiglia. L’indennizzo per la morte del dodicenne Tamir Rice, ucciso da un poliziotto nel 2014 perché aveva in mano una pistola giocattolo, è stato invece fissato a sei milioni. Il caso è stato discusso nell’Ohio, dove le giurie possono tener conto della sofferenza dei familiari.
E anche il contesto sociale è stato importante, perché la morte di Rice rientrava nella più ampia polemica sul poco rispetto che mostra la polizia per le vite dei neri. In sostanza, però, in nessuno dei due casi si è cercato di valutare la perdita di una vita in sé, né d’altra parte la legge lo prevede.Anthony Sebok studia questo tipo di cause allo Yeshiva college di New York. “C’è un indennizzo per le sofferenze subite prima della morte, e uno per il mancato reddito della famiglia dopo la morte. Ma la perdita di una vita in sé non vale nulla”.
Per questo è il contesto a fare la differenza. Dopo gli attentati dell’11 settembre, il massacro al politecnico della Virginia del 2007 e l’attentato alla maratona di Boston del 2013, l’avvocato Kenneth Feinberg ha ricevuto l’incarico di distribuire i risarcimenti ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime. In ciascun caso la somma erogata è stata diversa, ma gli indennizzi non si basavano sul valore fondamentale della singola persona. Erano solo una manifestazione di patriottismo, di forza e di compassione.
Dopo l’11 settembre il governo degli Stati Uniti istituì un fondo per i feriti e per le famiglie delle quasi tremila vittime. Su mandato del congresso Feinberg doveva tenere conto di certi aspetti della legislazione sull’omicidio colposo, perciò distribuì i fondi in base al reddito delle vittime. I parenti di un amministratore delegato avevano diritto a un indennizzo maggiore di quelli di un portiere. Ma c’era anche una parte non legata al reddito, una cifra fissa di 250mila dollari a vittima, più 100mila per il coniuge e per ogni persona a carico. I risarcimenti andavano da 250mila dollari a 7,1 milioni.
“Il congresso voleva dimostrare al mondo la sua empatia e il suo sostegno ai parenti delle vittime”, spiega Feinberg nel suo libro Who gets what. Fair compensation after tragedy and financial upheaval (Chi riceve cosa. Risarcimenti equi dopo una tragedia e rivoluzione finanziaria). Il programma “era la prova che gli statunitensi erano uniti, una comunità di persone pronte ad aiutarsi nel momento del bisogno”. I fondi per risarcire le vittime del politecnico della Virginia e della maratona di Boston, raccolti grazie alle donazioni private, erano una “dimostrazione di solidarietà”, dice Feinberg. Perciò sono state applicate regole diverse: tutte le vite sono state trattate nello stesso modo.
Tutte le famiglie delle vittime della Virginia hanno ricevuto 208mila dollari, e quelle di Boston 2,2 milioni. Nel Regno Unito, a occuparsi dei risarcimenti alle vittime di atti criminali è la Criminal injuries compensation authority . La cifra di base è 11mila sterline per ogni componente della famiglia o persona a carico, o 5.500 ciascuno se gli aventi diritto sono molti, più le spese per il funerale e un indennizzo per la perdita di reddito e della guida di un genitore. Il tetto stabilito è di 500mila sterline ma, secondo un’indagine del Financial Times, per le vittime dell’attentato di Londra del 2005 finora l’indennizzo massimo è stato di 141mila sterline.
Poi c’è il problema delle persone che passano ingiustamente anni della loro vita dietro le sbarre. Nel Regno Unito non c’è alcun risarcimento garantito. I singoli casi vengono valutati, tra le altre cose, in base ai precedenti e alla perdita di reddito. C’è un tetto di 500mila sterline, che possono arrivare a un milione se gli anni passati in prigione sono più di dieci, sempre che il risarcimento venga concesso. “Sono molto rigidi”, dice Hoyano. Non basta che una sentenza sia stata annullata, le vittime devono trovare nuovi elementi per dimostrare la loro innocenza al ministero della giustizia. E il livello di prove richiesto è così alto che alla fine molti non hanno diritto a nulla.
Quando nel 2013 Victor Nealon è stato rilasciato perché la prova del dna aveva dimostrato la sua estraneità al tentativo di violenza sessuale di cui era stato accusato, aveva passato 17 anni in carcere, e ha avuto solo 46 sterline di indennizzo. In Nuova Zelanda la legge non prevede il diritto al risarcimento, ma vengono valutati i singoli casi. Il punto di partenza per ogni anno passato in prigione è di 100mila dollari neozelandesi (72mila euro). Negli Stati Uniti ogni stato ha le sue regole.
Nel New Hampshire, sono 20mila dollari in qualsiasi caso. In Florida, sono 50mila dollari per ogni anno passato ingiustamente in carcere fino a un massimo di due milioni. Robert Norris, un esperto di errori giudiziari dell’Appalachian state university di Boone, in North Carolina, dice che quello che conta non è tanto il denaro in sé ma che lo stato riconosca che è stato commesso un errore, anche se non equivale a chiedere scusa.
I governi occidentali che risarciscono le famiglie di civili uccisi dai loro militari in Afghanistan e in Iraq usano un criterio simile: i risarcimenti non sono un modo per scusarsi quanto un’espressione di vicinanza e di rammarico. Il ministero della difesa britannico ha pagato 5.600 sterline a un afgano che aveva perso la moglie e il figlio a causa di una bomba lanciata per sbaglio. Il governo tedesco ha pagato 3.800 euro a ciascuna delle 102 famiglie afgane vittime di un bombardamento.
Quello statunitense ha risarcito con 10mila dollari la famiglia di due fratelli ai quali i suoi militari avevano sparato in Iraq. “È difficile digerire l’idea che una vita umana valga solo poche migliaia di dollari”, ha dichiarato in un’intervista del 2013 il generale statunitense in congedo Arnold Gordon-Bray. “Ma sappiamo che in quel contesto quei soldi valgono molto di più, e questo ci fa sentire meglio”. Può essere inquietante pensare che il valore che attribuiamo a una vita umana cambi in base alle priorità politiche, ai confini nazionali e al contesto sociale, che vari a seconda del costo delle cure o delle cinture di sicurezza.
Ma anche se è difficile attribuire un valore equo, non significa che non ci si debba provare. Pensate all’algebra morale di Benjamin Franklin. Circa 250 anni fa Franklin scrisse una lettera a un amico che doveva prendere una decisione difficile. Gli consigliò di fare una lista dei pro e dei contro, e poi eliminare da una parte e dall’altra le voci che sembravano avere la stessa importanza. Quando “ho davanti a me tutti i fattori, penso di poter giudicare meglio, e di avere meno probabilità di prendere una decisione affrettata”, scriveva Franklin.
Lo stesso criterio vale anche oggi. La nostra riluttanza ad accettare questi calcoli ci fa agire alla cieca quando siamo costretti a farli. “Devi decidere per cosa spendere, perché non ci sono mai soldi per tutto”, dice Louise Russell della Rutgers. “Puoi fare questa scelta a occhi aperti o a occhi chiusi”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato il 20 gennaio 2017 nel numero 1188 di Internazionale.
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