Il 14 giugno 1985 cinque ministri di cinque governi europei si incontrano a bordo di un battello sul fiume Mosella. Sono in Lussemburgo, in un luogo dall’alto valore simbolico perché l’imbarcazione è ormeggiata nei pressi di una cittadina, Schengen, al confine con Francia e la Repubblica federale tedesca (Rft). I ministri sono quelli degli esteri e degli affari europei di Francia, Rft, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo.

L’incontro ha come obiettivo un accordo intergovernativo, diventato subito famoso, chiamato proprio accordo di Schengen. I paesi coinvolti cominciano un percorso per aprire progressivamente le frontiere interne tra gli stati firmatari e condividere un approccio comune sui flussi migratori provenienti dall’esterno. Di fatto l’accordo è un rafforzamento della cooperazione già in atto tra Francia e Rft con il coinvolgimento dell’area del Benelux. La tendenza al superamento delle frontiere interne è enfatizzata dallo smantellamento dei controlli di polizia, programmato e messo in atto negli anni successivi.

Un gruppo importante di stati, collocati nel cuore dell’Europa, proprio sulle frontiere in cui gli eserciti avevano combattuto sanguinosamente durante le guerre mondiali, decide dunque di cominciare ad abbattere i confini nazionali: è una novità dirompente, destinata a imprimere un passo nuovo all’intero processo d’integrazione europea. Una novità descritta come l’inizio di un’epoca nuova per la parte occidentale dell’Europa, esaltata anche rispetto alla chiusura delle frontiere orientali.

Sono passati quarant’anni. L’Europa è cambiata, attraverso accelerazioni continue che hanno creato un quadro profondamente diverso da quello del 1985, a partire dalla caduta della “cortina di ferro” che separava est e ovest, fino ad arrivare alla fase attuale, segnata in maniera drammatica dal ritorno dirompente della guerra e del riarmo. Proprio nelle settimane in cui sono ricordati i quarant’anni dell’accordo di Schengen, sulla frontiera tra Paesi Bassi e Germania, nella prima settimana di giugno ci sono state iniziative di alcuni gruppi di cittadini olandesi, organizzati da movimenti di estrema destra, scesi in strada con lo scopo di monitorare le auto provenienti dalla Germania per evitare l’arrivo di richiedenti asilo.

Queste ronde hanno coinvolto piccoli gruppi di persone ma hanno infiammato il dibattito pubblico in Germania e nei Paesi Bassi, proprio pochi giorni dopo la crisi del governo olandese, caduto sulla base di alcune richieste di ulteriori strette all’immigrazione proposte dall’estrema destra. La coincidenza tra l’anniversario di Schengen e le tensioni sulla frontiera tra Paesi Bassi e Germania non possono passare inosservate: segnano la presenza di una pressione sistematica e in crescita sulle frontiere europee, non solo esterne ma anche interne. Ma cosa è cambiato nel frattempo? Cosa distingue le decisioni prese a Schengen e l’Europa di oggi?

Nel 1985 i cinque stati firmatari condivisero una dichiarazione comune che per diventare operativa fu seguita da un lavoro intenso di cooperazione, culminato nel 1990 nella convenzione di applicazione dell’accordo, sottoscritta sempre a Schengen. Come hanno messo in luce i più importanti storici che si sono occupati del tema – da Tony Judt a Simone Paoli, a Peter Gatrell – il percorso nasce da una duplice esigenza: da un lato sostenere e promuovere la mobilità interna agli stati nella cornice di un rafforzamento dell’integrazione economica e commerciale, dall’altro condividere un sistema omogeneo di regole per gestire i flussi migratori provenienti dall’esterno.

Questo accordo condizionerà in modo determinante le politiche europee sulle migrazioni, coinvolgendo progressivamente anche molti altri stati: alcuni, come l’Italia, all’inizio esclusi da Schengen ma già parte integrante del processo d’integrazione europea, altri che si aggregheranno successivamente sulla base dell’allargamento di quella che da Comunità economica europea diventerà Unione europea.

In Europa il tema dell’immigrazione si rivela fonte di polemiche e conflitti già nella seconda metà degli anni ottanta. Alle elezioni europee del giugno 1989 si registra la presenza di movimenti xenofobi che non occupano spazi marginali ma entrano a pieno titolo nel dibattito politico nazionale e internazionale: i due partiti di estrema destra presenti in Francia e Germania, il Front national e i Republikaner, ottengono rispettivamente l’11,7 per cento e il 7,3 per cento dei voti, agitando durante la campagna elettorale contenuti ostili all’immigrazione e favorevoli a politiche estremamente restrittive.

Schengen, Lussemburgo, 19 giugno 1990. Il parlamentare tedesco Lutz Stavenhagen, la ministra francese degli affari europei Edith Cresson, il politico lussemburghese Georges Wohlfart e il belga Paul De Keersmaeke prima della firma della convenzione di Schengen. (Charles Caratini, Afp)

La caduta delle frontiere tra l’Europa dell’est e quella dell’ovest all’inizio è salutata con grande ottimismo: le auto che le attraversano sono il simbolo di una stagione nuova che si lascia alle spalle la guerra fredda. Ma già nel corso del 1990, soprattutto in Germania, la paura di una “invasione” dall’est si diffonde in modo capillare, creando un clima politico molto scettico verso la stessa riaperture delle frontiere.

Nel corso degli anni novanta il doppio regime di politica migratoria previsto da Schengen si estende. Prima sono coinvolti gli stati mediterranei – come Italia, Grecia, Spagna e Portogallo – poi tutti quelli che partecipano all’allargamento dell’Unione. Oggi lo spazio Schengen coinvolge 29 paesi, inclusi alcuni come la Svizzera che non fanno parte dell’Unione. Mentre però la rimozione delle frontiere interne funziona regolarmente, le politiche sulle migrazioni extraeuropee fanno nascere conflitti.

Il peso sugli stati frontalieri è molto forte: si pensi ad esempio alle regole sottoscritte con la Convenzione di Dublino (in vigore dal 1997) sui richiedenti asilo, che obbligano coloro che intendono chiedere asilo a fare domanda nel primo paese europeo che incontrano nel loro viaggio. Altrettanto evidente è la difficoltà a rispondere in modo unitario a eventi particolari, come la guerra in Jugoslavia, che soprattutto tra il 1992 e il 1995 da vità a grandi movimenti migratori, non solo negli stati confinanti.

La crisi economica mondiale scoppiata nel 2008 ha ulteriormente trasformato lo scenario. L’aumento della disoccupazione in tutto il continente europeo ha messo a dura prova la coesione sociale. Le politiche scelte dall’Unione hanno puntato su tagli allo stato sociale e al suo ridimensionamento: una scelta in contrasto con quell’impostazione delle politiche pubbliche che aveva per decenni contraddistinto gli animatori e i sostenitori del processo di integrazione. In un contesto simile, i cittadini stranieri residenti nei paesi europei sono diventati un gigantesco capro espiatorio. Nei loro confronti si è sviluppato un doppio movimento di pressione dal basso e dall’alto. Diventando oggetto di accuse sempre più pressanti da parte delle opinioni pubbliche: indicati come destinatari privilegiati delle poche risorse pubbliche, sono stati al centro di una propaganda razzista che domina ancora oggi il dibattito nazionale e internazionale.

Nel frattempo, le politiche elaborate dai principali partiti per gestire le conseguenze della crisi puntavano in modo sistematico a restringere i diritti degli stranieri residenti e chiudere le porte alle persone migranti in viaggio verso l’Europa. A rendere il quadro ancora più problematico sono state a partire dal 2010 le conseguenze internazionali delle primavere arabe. I richiedenti asilo del Nordafrica e del Medio Oriente sono finiti in un sistema incentrato su restrizioni e sbarramenti e controlli: la tragedia delle morti nel Mediterraneo è figlia di questo sistema, incapace di garantire rotte legali e ordinarie verso l’Europa. Nei paesi dell’Unione il tema del diritto d’asilo infiamma il dibattito politico. Nel giro di pochi anni sono messe in campo insieme di procedure che rendono estremamente selettivo e complesso il diritto d’asilo, diventato ormai un diritto quasi impossibile da esercitare per chi si avvicina ai confini europei.

La cornice per governare la mobilità extraeuropea immaginata a Schengen sulla base di controlli alle frontiere esterne, armonizzazione del sistema dei visti e scambio di informazioni tra le polizie rappresenta oggi l’ossatura di un progetto politico che va oltre il semplice controllo dell’immigrazione. Non si tratta più di costruire strumenti per gestire la mobilità internazionale, ma di procedure immaginate per scoraggiare, impedire e contrastare le migrazioni. L’enfasi sulla libertà di movimento, sempre limitata alle frontiere interne, così diffusa nell’Europa degli anni ottanta, ha lasciato spazio a una nuova narrazione: la retorica di un continente sicuro perché capace d’impedire l’arrivo di persone dall’esterno. E se queste persone partono lo stesso è un problema loro: sono destinate a morire nel viaggio o a essere respinte. I margini per entrare in questo spazio così esclusivo sono sempre meno, ma la determinazione di chi si muove non si può fermare: questo l’Europa ancora non riesce a capirlo.

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