Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2020 nel numero 1367 di Internazionale.

Nel 2013, durante una visita in Senegal, il presidente statunitense dell’epoca Barack Obama ha tenuto una conferenza stampa insieme al capo dello stato senegalese Macky Sall. “Presidente Obama”, gli ha chiesto un giornalista americano, “ha cercato di convincere il presidente Sall a depenalizzare l’omosessualità? E, presidente Sall”, ha proseguito il giornalista, “s’impegnerà a depenalizzarla?”.

La domanda era prevedibile: il giorno prima, mentre sorvolavano l’Atlantico, Obama e i suoi collaboratori avevano festeggiato la notizia che la corte suprema degli Stati Uniti aveva ribaltato il Defence of marriage act (la legge che definiva il matrimonio come un’unione tra un uomo e una donna), aprendo la strada alle nozze gay in tutto il paese. Obama aveva dichiarato: “Le leggi degli Stati Uniti si stanno adeguando a una verità fondamentale che custodiamo nel cuore, come milioni di americani: quando tutti sono trattati alla pari – a prescindere da chi sono o da chi amano – siamo tutti più liberi”.

In Senegal, però, il codice penale vietava (e vieta ancora) gli atti omosessuali considerandoli “impropri o contro natura”. Inoltre, dopo un periodo di lassismo, nel paese la legge era nuovamente applicata in modo severo. All’inizio degli anni duemila, in una specie di tempesta perfetta, la globalizzazione aveva portato in Africa occidentale nuove correnti rigoriste dell’islam, proprio mentre l’epidemia di aids continuava a diffondersi in tutto il continente.

Negli anni successivi la maggiore visibilità data dai mezzi d’informazione online e dalle tv satellitari ai diritti delle persone lgbtq+ e ai matrimoni omosessuali aveva scatenato una nuova ondata d’intolleranza. Pochi mesi prima della visita di Obama, ero stato a Dakar dove avevo incontrato i leader del movimento lgbtq+, che vivevano nel terrore e in clandestinità. Un noto giornalista era in carcere, e anche alcune donne: come metà delle leggi sulla sodomia adottate nel mondo, quella senegalese criminalizzava anche il sesso tra donne.

La domanda rivolta a Obama e a Sall era la spia di come un dibattito globale sull’orientamento sessuale e l’identità di genere avesse cominciato a definire il mondo in termini nuovi. La globalizzazione aveva aperto una nuova frontiera dei diritti umani: mentre in alcune parti del mondo i matrimoni omosessuali e la transizione di genere erano considerati segni di progresso, in altre s’inasprivano le leggi. Una “linea rosa” divideva i paesi che cercavano d’integrare le persone queer nella società garantendogli pieni diritti e quelli che trovavano nuovi modi per escluderle.

Nuovi orizzonti

In tutto il mondo la crescita del movimento per i diritti lgbtq+ ha creato nuovi spazi e identità per le persone. Ha creato anche nuove sfide, spingendo molti a cercare un equilibrio tra la liberazione vissuta su internet e le costrizioni nella vita reale, o tra la libertà che potevano sperimentare nelle città e gli impegni presi nei luoghi di provenienza. Ha spinto nuovi gruppi di persone a rivendicare diritti, scatenando allarmi e resistenze. Ha aperto nuovi orizzonti, e le società hanno cominciato interrogarsi su cosa significa essere una famiglia, un maschio, una femmina, un essere umano. E ha scatenato nuove paure.

La linea rosa ha attraversato studi televisivi e parlamenti, redazioni e aule di tribunale, e ha aperto nuovi fronti nella guerra tra culture. Negli Stati Uniti questa linea immaginaria ha attraversato perfino i bagni delle scuole, con i consigli d’istituto e i genitori impegnati in una battaglia legale per impedire ai bambini transgender di usare i servizi in base alla loro identità di genere.

A metà giugno del 2020, con una sentenza storica, la corte suprema statunitense ha stabilito che licenziare una persona per il suo orientamento sessuale o per l’identità di genere è illegale. La sentenza è stata una specie di avvertimento per l’amministrazione guidata da Donald Trump, che ha cercato in tutti i modi di escludere le persone transgender dalle forze armate e che due settimane prima aveva abolito le norme per la difesa di queste persone dalle discriminazioni in ambito sanitario. Nelle ultime settimane, il governo del Regno Unito ha fatto retromarcia su una proposta di legge che avrebbe permesso alle persone di cambiare genere legale identificandosi come maschi o femmine (senza la diagnosi di un medico).

Nel 2013 a Dakar Obama ha cercato di rispondere alla domanda del giornalista in modo diplomatico, facendo una distinzione tra le opinioni personali e le tradizioni, che devono essere “rispettate”, e la responsabilità dello stato, che deve trattare tutti i cittadini allo stesso modo. Quando è stato il suo turno, il presidente senegalese ha usato l’argomentazione tipica di chi contrappone i valori tradizionali al concetto di diritti umani universali. “Non c’è un modello standard applicabile a tutti”, ha detto Sall. “Abbiamo tradizioni diverse”.

Sall, un politico progressista con un passato di attivista per i diritti umani, aveva rilasciato dichiarazioni possibiliste sulla depenalizzazione. Ma subiva le pressioni delle organizzazioni islamiche e non voleva dare l’impressione di piegarsi all’occidente. Poco tempo dopo si è sfogato in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit: “In Europa avete le unioni omosessuali praticamente da ieri e volete che gli africani le adottino subito? Sta succedendo tutto troppo in fretta! Viviamo in un mondo che cambia lentamente”.

Nella dichiarazione di Sall due punti hanno attirato la mia attenzione. Il primo è stato: “Viviamo in un mondo che cambia lentamente”. Il secondo è stato quando ha sottolineato che a chiedere il cambiamento in Senegal erano degli estranei: l’occidente, “voi”, non i senegalesi.

La porta dell’Europa

Intanto, in un’altra parte del pianeta, la linea rosa correva lungo i confini della vecchia cortina di ferro. Nel 2013 l’Ucraina doveva decidere se portare avanti il progetto di associazione all’Unione europea o se entrare nella nuova unione doganale “eurasiatica” promossa dal presidente russo Vladimir Putin.

Quell’anno Putin aveva preso di mira l’Unione e la sua espansione a est, rivendicando la difesa dei “valori tradizionali” della società slava ortodossa contro l’occidente laico e decadente. A Kiev, la capitale ucraina, un imprenditore vicino al Cremlino avevano fatto tappezzare la città di cartelloni pubblicitari dove si vedevano due omini stilizzati che si tenevano per mano accompagnati dallo slogan: “L’associazione con l’Unione europea significa matrimonio tra persone dello stesso sesso”. Le tv russe, che hanno molti spettatori ucraini, rilanciavano una battuta allusiva che circolava in quei giorni: V Evropu čerez žopu, la strada per l’Europa passa per il culo.

Alla parata del Pride, New York, 24 giugno 2018. (Timothy A. Clary, Afp/Getty Images)

In tutta la regione i politici nativisti cavalcavano la resistenza ai diritti lgbtq+ per riaffermare una sovranità che ai loro occhi era stata ceduta all’Europa. In Polonia il partito Diritto e giustizia dei gemelli Kaczyński si era consolidato anche demonizzando il nascente movimento lgbtq+ locale, una strategia che ha avuto un ruolo importante nella campagna elettorale del 2019. Lo stesso aveva fatto il partito Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, prima approvando nel 2012 un emendamento costituzionale che vieta i matrimoni omosessuali e poi con una legge che impedisce alle persone transessuali di cambiare genere di fronte alla legge. In Polonia e in Ungheria, come in Russia, l’omofobia ostentata rientrava in un progetto più ampio di affermazione dell’identità nazionale contro gli immigrati, altra presunta conseguenza negativa dell’apertura delle frontiere.

Proprio mentre in Russia cominciava un giro di vite contro gli immigrati – in particolare contro quelli originari dell’Asia centrale – Mosca ha approvato la legge sulla “propaganda gay”, che vietava di parlare dell’omosessualità in presenza di minori o sui mezzi d’informazione che i minori potevano leggere o ascoltare. La legge ha scatenato una lunga serie di violenze: dalla caccia alle streghe tra gli insegnanti all’online entrapment (l’istigazione a delinquere attraverso agenti provocatori), dalle torture agli attacchi contro i manifestanti. A farne le spese sono state soprattutto le donne transgender, considerate l’esempio più lampante della dissolutezza occidentale.

In queste circostanze ho incontrato Olena Shevchenko, la principale attivista lgbtq+ ucraina. La sua battaglia, mi ha spiegato, aveva un obiettivo molto più modesto del riconoscimento dei matrimoni omosessuali: in quel momento in Ucraina la priorità era scongiurare l’approvazione di una legge contro la propaganda gay copiata da quella russa, promossa dagli emissari del Cremlino e dai nazionalisti ucraini di destra, e cercare di fermare la violenza pubblica contro le persone queer. Ma altri attivisti della società civile criticavano Shevchenko: secondo loro non era il momento per parlare di questi problemi. La società ucraina, sostenevano, non era ancora pronta e c’era il rischio di prestare il fianco agli avversari, che accusavano il movimento di essere manovrato dall’Europa.

Shevchenko, avvocata di formazione, è poi diventata la comandante di un’unità militare formata da sole volontarie durante la rivoluzione del febbraio del 2014. “Sì”, mi ha detto, “hanno ragione. La società ucraina non è pronta per i diritti lgbt. Ma d’altra parte queste persone non possono più essere tenute a freno. Vanno su internet; guardano la tv; viaggiano; vedono come si vive negli altri paesi. Perché non dovrebbero desiderare le stesse libertà? Perché devono restare in clandestinità? Il mondo va veloce, e in Ucraina fatichiamo a tenere il passo degli eventi. Non possiamo far altro che provare a recuperare il terreno perduto”.

Chi aveva ragione? Macky Sall, secondo cui il mondo cambiava lentamente, o Shevchenko, secondo cui andava troppo veloce? In realtà, entrambi.

Nel ventunesimo secolo la linea rosa non è più una linea: è un territorio. È una zona di confine dove le persone queer cercano di conciliare la liberazione e il senso di comunità che sperimentano online, in tv o in ambienti sicuri con le restrizioni imposte nei luoghi pubblici, sul posto di lavoro o in famiglia. Queste persone devono sempre fare la spola tra due mondi: quando alzano lo sguardo dagli smart-phone e si ritrovano davanti la famiglia riunita intorno a un tavolo; o quando risalgono i gradini di un locale notturno per tornare nella sfera dello stato-nazione. In un mondo il tempo accelera, nell’altro si ferma. Passare continuamente da una parte all’altra può dare le vertigini.

Le persone queer che ho conosciuto negli ultimi dieci anni hanno assorbito le influenze più varie, dal pulpito allo smart-phone. Una cosa, però, le accomuna: l’azione. Da questo punto di vista, Shevchenko ha capito qualcosa che Sall non è riuscito o non ha voluto vedere: la richiesta di cambiamento è, sì, appoggiata dall’estero, ma arriva direttamente dai senegalesi e dagli ucraini.

Un corteo per i diritti lgbtq+ a Taipei, Taiwan, 28 giugno 2020. (An Rong Xu, The New York Tim​es/Contrasto)

Non è un caso se il concetto di diritti lgbtq+ ha cominciato a diffondersi in tutto il mondo nello stesso momento. Il crollo dei vecchi confini innescato dalla globalizzazione ha portato alla circolazione di nuove idee su parità sessuale e transizione di genere, ma anche alla reazione delle forze conservatrici, di patriarchi e religiosi spaventati dalla perdita di controllo che questo processo porta con sé. Queste sono le dinamiche innescate dalla linea rosa, soprattutto in quei paesi dove per la prima volta le persone sono state identificate come gay, lesbiche, transgender o msm (men who have sex with men, uomini che fanno sesso con uomini). In molti casi queste categorie erano sempre esistite, anche se in ambiti circoscritti e spesso nascosti. A un certo punto, però, hanno rivendicato un nuovo status e assunto nuove identità politiche, legandosi a una dinamica globale più ampia.

Nella campagna per le elezioni presidenziali francesi del 2017, la candidata del Front national, Marine Le Pen, ha dichiarato che il mondo non si divide più tra “sinistra” e “destra”, ma tra “globalisti” e “patrioti”. Le Pen ha perso le elezioni contro Emmanuel Macron, ma in altre parti del mondo leader con posizioni simili hanno ottenuto successi importanti.

Nel 2016 Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti usando senza remore la parola “nazionalista” e accusando i promotori dei valori globali di non essere dei patrioti. Lo stesso anno, dopo che il Regno Unito aveva votato a favore della Brexit, la premier britannica dell’epoca Theresa May ha dichiarato: “Se credi di essere un cittadino del mondo, sei un cittadino del nulla”.

Sia Trump sia i sostenitori della Brexit cercavano di ripristinare i confini nazionali contro la libera circolazione dei capitali, dei commerci e, soprattutto, delle persone. Questa politica non voleva solo costruire nuovi muri, ma sosteneva che quelli vecchi erano caduti troppo in fretta.

In Europa questi movimenti nazionalisti affermavano di voler proteggere non solo i cittadini e i loro posti di lavoro, ma anche i loro valori. Quando Le Pen si è candidata alla presidenza nel 2017, tra questi valori c’erano anche i diritti delle persone lgbtq+.

L’ispiratore di questa linea era stato Pim Fortuyn, un politico olandese profondamente ostile all’immigrazione, assassinato nel 2002. Fortuyn, dichiaratamente gay, prima di morire aveva conquistato forti consensi nei Paesi Bassi sostenendo che l’intolleranza dei musulmani verso l’omosessualità era una minaccia esistenziale per la civiltà europea. Il suo successore di estrema destra, Geert Wilders, ha continuato a battere su questo tasto. Nel giugno del 2016, quando un uomo di famiglia musulmana, con disturbi mentali, ha ucciso 49 persone nel locale gay Pulse di Orlando, in Florida, Trump – in campagna elettorale – si è scagliato contro il “terrorismo islamico radicale”. Wilders, anche lui in campagna elettorale, ha provato a strumentalizzare la tragedia: “La libertà che i gay dovrebbero avere – di baciarsi, di sposarsi, di avere figli – è esattamente ciò contro cui combatte l’islam”.

In Europa occidentale la questione dei diritti lgbtq+ è stata usata contro gli immigrati

Wilders ha perso le elezioni, ma ha influenzato i suoi avversari, tanto che il primo ministro uscente, il moderato di centrodestra Mark Rutte, ha finito per scimmiottare la sua retorica di destra.

In Francia, Le Pen ha interpretato entrambe le parti: si è detta contraria ai matrimoni omosessuali ma non ha partecipato alle manifestazioni in difesa della famiglia tradizionale. Nel 2013, in un’intervista rilasciata durante una visita in Russia, Le Pen ha detto di concordare con il Cremlino sul fatto che “l’omofilia è uno degli elementi della globalizzazione”. Ma il vice di Le Pen, nonché suo stratega elettorale, Florian Philippot, è gay, e lei nel 2017 ha corteggiato apertamente l’elettorato omosessuale presentandosi come l’ultimo baluardo contro “l’odio dell’islam per i gay”.

Altri partiti di destra europei si sono accodati. Nel 2018 un portavoce del partito nazionalista fiammingo Vlaams belang ha dichiarato che la sua formazione era la più vicina ai gay, perché gli altri partiti erano “pronti a far entrare migliaia di musulmani con idee violente nei confronti di gay e transgender”. In Germania il partito ostile agli immigrati Alternative für Deutsch-land (Afd) è contrario ai matrimoni omosessuali e vuole limitare l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole. La sua leader Alice Weidel, però, è lesbica, e all’interno del partito c’è una corrente gay convinta che la lotta contro “l’ortodossia islamica” sia una condizione per la “sopravvivenza” dei tedeschi lgbtq+. Nel 2016 la sezione di Berlino dell’Afd ha tappezzato la città di manifesti con scritto: “Io e il mio compagno non vogliamo incontrare immigrati musulmani per i quali il nostro amore è un peccato mortale”.

In Europa occidentale la questione dei diritti lgbtq+ è stata usata come una linea rosa contro l’arrivo di nuovi immigrati. In Europa orientale è stata cavalcata per arginare la decadenza del liberalismo occidentale. In entrambi i casi, le persone
queer sono state strumentalizzate, e gli è stato attribuito un significato politico che va oltre le loro rivendicazioni. Per alcuni sono diventate l’incarnazione del progresso, per altri della decadenza.

Nuove opportunità e chiusure

In molte parti del mondo la linea rosa ha sovvertito modi secolari di affrontare la sessualità e l’identità di genere. Com’era già accaduto in occidente alla fine del novecento, in America Latina, in Asia e in Africa l’omosessualità è ormai riconosciuta come un’identità degna di diritti e riconoscimento e non più come un comportamento da tenere segreto. Avere un’identità di genere diversa da quella assegnata alla nascita è diventato un diritto fondamentale della persona, che può essere facilitato dalla medicina e dalla chirurgia.

Tutto questo ha dato nuove opportunità di emancipazione da un lato, ma ha chiuso degli spazi dall’altro, perché la concezione binaria del genere tipica dell’occidente si è affermata anche in società dove spesso il genere era considerato in modo più fluido. In poco tempo categorie transgender secolari come le waria in Indonesia o le góor-jigéen in Senegal sono finite sotto il nuovo ombrello lgbtq+. In molte parti del mondo per gli uomini è normale camminare a braccetto o mano nella mano. Ma in paesi come l’Egitto e la Nigeria, dove le nuove categorie che chiedono più spazi e diritti hanno scatenato il panico, questi semplici gesti di affetto sono diventati sospetti.

Il Pride di Parigi, 2018. (Cristina Garcia Rodero, Magnum/Contrasto)

Una delle caratteristiche distintive della vita nel ventunesimo secolo è la velocità con cui si propagano le idee. “C’è sempre un contraccolpo negativo quando le persone fanno coming out”, ha osservato l’attivista statunitense Julie Dorf nel 2014. “Se oggi succede una cosa negli Stati Uniti domani la sanno tutti in Azerbaigian. Le paure della destra e dei conservatori sono fondate: i diritti sono diritti. Quando si comincia a combattere per l’uguaglianza delle persone lgbt, si arriva inevitabilmente all’uguaglianza dei matrimoni, anche se non è questa la priorità degli attivisti di paesi come la Nigeria o la Russia. In questi paesi le persone queer chiedono solo di vivere in pace e di non essere uccise, di avere le stesse tutele degli altri cittadini”.

In Russia e in molti paesi africani, al centro del dibattito lgbtq+ ci sono spesso i diritti alla libertà di associazione e alla sicurezza, e la tutela dei minori. In altri paesi, come Stati Uniti, Messico e Francia, il dibattito si concentra su cos’è la famiglia e chi ha il diritto di formarne una. Nei paesi cattolici dell’Europa e dell’America Latina, la linea rosa è diventata parte dello scontro più ampio sul “gender”, con le parti conservatrici del mondo cattolico che accusano gli esseri umani di interferire con il disegno divino.

In Medio Oriente il dibattito si è acceso dopo le primavere arabe, quando il nascente movimento queer ha cercato di acquisire visibilità pubblica, ed è stato accolto come un risvolto negativo di quell’apertura. In gran parte dell’Asia la conversazione è stata alimentata dai social network, e anche dalla rapida urbanizzazione e industrializzazione, che ha portato per la prima volta milioni di giovani a vivere lontano dalle famiglie.

In tutto il mondo, anche se con modalità diverse, oggi si discute di identità di genere e del diritto delle persone a modificare le categorie di maschio e femmina o a non scegliere necessariamente l’una o l’altra. Il punto che queste linee rosa hanno in comune è il modo in cui contrappongono “tradizione” e “modernità”. Ma lo sforzo delle persone queer è stato spesso conciliare i due elementi: abbracciare un’idea liberatoria di modernità rimanendo parte integrante della loro società e della loro comunità.

In tutto il mondo il dibattito, proprio perché nuovo, è stato acceso e violento, con le forze conservatrici pronte a ribellarsi alle inevitabili conseguenze di un mondo che si era appena globalizzato. Il primo effetto è stato creare una specie di panico morale, che ha contribuito a trasformare le persone omosessuali o di genere non conforme in capri espiatori, spauracchi, pretesti per invocare l’ordine, forze del male in contrapposizione alle quali definire l’identità nazionale. In gran parte dei casi, l’obiettivo dichiarato di queste campagne era difendere i “valori tradizionali” e l’“ordine naturale” dalle offese della società moderna, e la gente comune da un’élite globale cosmopolita.

Nel 2012 l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon si è rivolto all’assemblea dell’Unione africana ad Addis Abeba, in Etiopia, per chiedere ai paesi del continente di abrogare le leggi sulla sodomia. L’esponente africano di più alto rango in Vaticano, il cardinale Robert Sarah, ha risposto con durezza: “Non si può imporre una cosa così stupida. I paesi poveri dell’Africa lo accettano solo perché gli viene imposto con il denaro, perché dipendono dagli aiuti”. Questo è storicamente lo slogan dell’internazionale antigay: l’omosessualità come transazione commerciale, come forma di “reclutamento” per sfruttare i poveri, i giovani o i neri, e compromettere i valori con i quali sono cresciuti.

Se il copione è ben noto, la sua prima applicazione in epoca contemporanea è stata in Iran durante la rivoluzione islamica del 1979: la feroce condanna dell’omosessualità, punita con la pena di morte dalla sharia, era per i nuovi governanti un modo di differenziarsi dalla decadenza del regime dello scià. Non ci sono dati affidabili su quanti presunti omosessuali siano stati uccisi dallo stato dal 1979 in poi, ma migliaia sono scappati all’estero.

Nel 2015 la guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha parlato delle gravi minacce a cui sono esposti i giovani iraniani per colpa dei “mezzi d’informazione che diffondono pensieri e opinioni sbagliate”. L’Iran, secondo Khamenei, “non era più coinvolto in una guerra militare”, ma in una serie di “guerre politiche, economiche, di sicurezza e, soprattutto, culturali”. L’ayatollah non si riferiva solo all’omosessualità, ma più in generale alla diffusione dei valori occidentali. In altre occasioni, ha detto che l’omosessualità è l’emblema dell’“assalto ai valori umani”.

Queste idee hanno messo radici anche in paesi più tolleranti. In Indonesia, durante un insolito giro di vite contro le persone queer nel 2016, il ministro della difesa Ryamizard Ryacudu ha detto che il movimento lgbtq+ è più pericoloso di un conflitto nucleare. Ha parlato inoltre di una “guerra per procura”, in cui “un altro stato potrebbe occupare le menti della nazione all’insaputa di tutti”. Come Khamenei, Ryacudu ha sottolineato l’inefficacia della guerra convenzionale contro questa minaccia: è una guerra morale, da combattere online e nel mondo reale.

Nel maggio del 2017 il primo ministro ungherese Orbán ha ospitato il Congresso mondiale delle famiglie, un evento internazionale organizzato da evangelici statunitensi e conservatori ortodossi russi. Nel discorso d’apertura Orbán ha collegato le sue politiche contro l’immigrazione ai “valori tradizionali” cristiani, e si è vantato di aver cambiato la storia frenando il flusso di migranti che entravano in Europa dalle frontiere ungheresi. Negli Stati Uniti Trump era appena stato eletto dopo una campagna elettorale centrata sulla necessità di erigere muri.

Un relatore dell’evento di Budapest, Jack Hanick, ha sottolineato il carattere fluido e indefinito di queste nuove battaglie. Hanick, che è stato tra i fondatori di Fox News e si è trasferito a Mosca per lanciare Tsargrad tv (“la tv di Dio, alla russa”, come l’ha descritta il Financial Times), durante il suo intervento ha mostrato un’immagine del telefilm statunitense degli anni settanta La famiglia Brady. Nonostante la presenza del patriarca maschio e della madre casalinga, ha spiegato Ha-nick, il modello di “famiglia mista” del telefilm è stato il primo passo verso il declino morale rappresentato da Modern family, una sitcom in onda da dieci anni, che “idealizza il matrimonio omosessuale”. “È una guerra”, ha detto, “ma non una guerra da combattere nel mondo fisico”.

Il capo di Hanick a Tsargrad tv era Konstantin Malofeev, oligarca e attivista di destra, fondatore della Lega russa per un’internet sicura, un’organizzazione impegnata a pattugliare il ciberspazio in nome della protezione dei minori sull’esempio di quello che succede in Cina. L’architetto del “grande firewall cinese”, com’è diventata nota la censura digitale di Pechino, si chiama Fang Binxing. Nel 2016, in un evento ospitato da Malofeev, Fang ha osservato che “i confini esistono anche nel mondo virtuale”, e ha accusato il governo statunitense di controllare direttamente le società che dominano questo spazio: Google, Facebook e Twitter. Che, ovviamente, sono vietati in Cina.

La Cina ha depenalizzato i rapporti omosessuali nel 1997 e ha riconosciuto che l’omosessualità non è una malattia nel 2001. Tuttavia, quando le persone queer cinesi hanno cominciato ad avere visibilità sui mezzi d’informazione occidentali e su internet, i marescialli del mondo virtuale hanno alzato la soglia dell’attenzione.

Nel 2016 e 2017 Pechino ha pubblicato un elenco di “rapporti sessuali anormali” da non mostrare in tv e su internet: tra questi, i “rapporti omosessuali”, l’“incesto”, le “perversioni sessuali” e gli “abusi sessuali”. Nel 2018 Sina Weibo – la versione cinese di Twitter – si è adeguata alla direttiva annunciando la rimozione di ogni contenuto esplicitamente pornografico, truculento o omosessuale.

La decisione ha scatenato la più grande protesta delle persone lgbtq+ mai vista in Cina. L’hashtag #IamGay è stato usato più di 500mila volte e visualizzato più di 530 milioni di volte; decine di migliaia di persone hanno twittato rivelando di essere queer o di avere familiari o amici queer. Weibo ha dovuto fare marcia indietro.

Schieramenti

In diverse parti del mondo, su internet le persone hanno trovato nuove comunità e informazioni (oltre che occasioni di incontri sessuali), ma la maggiore connettività ha fatto emergere anche nuove minacce, dal bullismo in rete all’outing indesiderato fino all’online entrapment. In Russia i giovani queer hanno trovato sostegno e solidarietà in un gruppo chiuso chiamato Children-404, ospitato da VKontakte, un social network russo. Ma c’è un altro gruppo, chiamato Occupy pedofilia, che usa VKontakte per stanare gli omosessuali e pubblica video raccapriccianti su torture e aggressioni ai gay.

Nel 2012 a una conferenza internazionale lgbtq+ è emerso che alcuni oppositori del regime di Bashar al Assad in Siria sono stati ricattati per le loro attività sulle app di appuntamenti per i gay. In Egitto, decine di uomini sono stati incastrati dalla polizia con Grindr, un’app di incontri per gli omosessuali. Dopo l’accaduto l’azienda ha disabilitato la funzione di geolocalizzazione in Egitto.

Ecco da chi sono state tracciate le linee rosa del ventunesimo secolo: da Grindr, Modern family e Weibo; dai funzionari del dipartimento di stato degli Stati Uniti e del Cremlino; dai burocrati della commissione per i diritti umani dell’Onu. E, ovviamente, dagli attivisti in prima linea su entrambi i fronti.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

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