La sera del primo ottobre migliaia di persone si sono raccolte davanti al varco Albertazzi, uno degli accessi al porto di Genova, zona San Benigno. In quelle ore le forze armate israeliane cominciavano a intercettare le imbarcazioni della Global sumud flotilla, la missione umanitaria per Gaza: e mentre sui social media circolavano filmati notturni di attivisti circondati da militari sulle loro imbarcazioni, manifestazioni spontanee di protesta si formavano a Roma, Milano, Napoli, e appunto Genova.

I presidi ai varchi del porto ligure sono continuati il giorno dopo e quello dopo ancora, in occasione dello sciopero generale in solidarietà con Gaza; anche perché a Genova l’impresa della Flotilla ha avuto una risonanza speciale.

Tra gli attivisti rimpatriati da Israele il 5 ottobre infatti c’è anche un lavoratore del porto di Genova: Jose Nivoi, attivista del Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) e sindacalista di base, era sulla Morgana, piccola barca a vela con equipaggio internazionale. Per tutto settembre era rimasto in contatto con i suoi compagni, che nel frattempo organizzavano assemblee pubbliche e lanciavano scioperi di sostegno.

I lavoratori portuali genovesi hanno avuto un ruolo di primo piano nella mobilitazione per la Flotilla. Sono stati tra i primi ad aderire alla campagna lanciata durante l’estate dall’organizzazione umanitaria Music for peace, molto conosciuta nel capoluogo ligure. La risposta della città era andata oltre ogni aspettativa. Una sera di fine agosto una fiaccolata di 80mila persone ha salutato le imbarcazioni che salpavano per unirsi alla Flotilla, con la sindaca Silvia Salis e il vescovo Marco Tasca: dimostrazione imponente, in una città di 560mila abitanti. In quell’occasione Riccardo Rudino, uno dei portuali del Calp, aveva avvertito a nome del collettivo: “Se perdiamo il contatto con la Flotilla, noi blocchiamo tutto”. Ripreso in un video rimbalzato sui social media, quel “blocchiamo tutto” è diventato uno slogan.

Il fatto è che attorno al porto di Genova è nato già da tempo un movimento contro la guerra che unisce ricercatori, attivisti, e lavoratori portuali.

Blocchiamo tutto

“Quando abbiamo detto blocchiamo tutto, non era mica per dire”, dice Rudino, che ho incontrato alla fine di settembre nel Circolo dell’autorità portuale, il centro ricreativo, biblioteca e centro sociale dei lavoratori portuali a pochi metri dal varco Albertazzi. Siamo alle spalle del porto, tra il grattacielo chiamato “il matitone” e l’ex officina industriale trasformata nell’accogliente sede di Music for peace, zona San Benigno. Qui alla fine di settembre si è tenuta una riunione del Coordinamento internazionale dei porti contro la guerra. C’erano rappresentanti di Italia, Francia, Grecia, Cipro, Paesi Baschi (Spagna), e a distanza anche Turchia e Marocco. Era il secondo appuntamento del genere; il primo, nel febbraio 2025, era stato ospitato dal sindacato dei portuali del Pireo, il porto di Atene. “Lavoriamo da tempo a costruire una rete europea e mediterranea”, spiega Rudino. “L’obiettivo è costruire azioni comuni per fermare ogni traffico di armi verso i paesi in guerra”.

La mobilitazione dei portuali genovesi per Gaza è cominciata nell’ottobre 2023, continua l’attivista, in risposta a un appello dei sindacati palestinesi che chiedevano di fermare i rifornimenti di armi per Israele. “Bloccare i porti non è certo una novità”, dice. E ricorda il caso della nave Cosco Shipping Pisces, a cui i portuali genovesi hanno impedito l’attracco nel luglio scorso. È bastato annunciare lo sciopero al terminal di Genova Prà, dove era previsto l’attracco: i lavoratori si sono rifiutati di scaricare tre container con materiale da guerra in arrivo da Singapore e da reimbarcare per Israele. Il cargo era stato già respinto dai lavoratori del Pireo: era stato proprio il sindacato dei portuali greci ad allertare i colleghi italiani.

Mobilitazioni simili c’erano state anche prima . “La nostra lotta contro il traffico di armi è cominciata nel 2019”, spiega Rudino mentre nel campetto di calcio del circolo si allena una rumorosa squadra dei bambini.

Si riferisce al caso della nave saudita Bahri Yanbu. Quella volta la segnalazione era arrivata dalla Francia: nel maggio 2019 a Le Havre l’azione combinata di associazioni per i diritti umani e della Cgt (uno di più grandi sindacati francesi) aveva impedito che sulla nave fossero caricati alcuni cannoni di produzione francese diretti in Arabia Saudita, in piena guerra nello Yemen. Decisivo era stato lo sciopero dei lavoratori portuali, che si erano rifiutati di caricare i cannoni in assenza di garanzie sul rispetto delle norme sul commercio delle armi con i paesi in guerra. La nave saudita era infine ripartita da Le Havre senza il carico, ma circondata da una certa notorietà.

Gli attivisti francesi allora hanno lanciato un’allerta agli italiani, attraverso la Rete disarmo: il cargo saudita era segnalato in arrivo a Genova. Il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali ha risposto. Nel porto ligure la nave doveva caricare tre container con materiale dichiarato per uso civile, generatori elettrici prodotti dalla ditta italiana Teknel. Qualche verifica ha rivelato che si trattava invece di sistemi d’arma, per i quali era stata chiesta regolare autorizzazione all’export, e che erano destinati alla guardia nazionale saudita. La ditta esportatrice, che all’inizio aveva negato, ha dovuto ammetterlo. I portuali hanno bloccato l’accesso al terminal dove la nave era attraccata, rifiutando di caricare i container: hanno invocato la legge italiana 185 del 1990, che vieta la vendita di armamenti alle nazioni in guerra. La ditta produttrice ha dovuto rinunciare alla spedizione. Per i portuali era un primo successo (anche se parziale: più tardi si è saputo che i container sono stati trasferiti alla chetichella a Venezia, e imbarcati per la loro destinazione).

Il caso della Bahri Yanbu ha segnato la nascita di un nuovo movimento di opposizione alla guerra, che unisce lavoratori portuali e altri soggetti, anche molto diversi: organizzazioni per i diritti umani, la Rete disarmo, associazioni pacifiste, gruppi di estrazione cattolica come Pax Christi, varie frange della sinistra, centri sociali. È nata allora l’associazione Weapon watch, formata da alcuni ricercatori decisi a tracciare la mappa della produzione e del commercio di armi in cui l’Italia è coinvolta. Inoltre, è allora che il Collettivo dei lavoratori portuali di Genova ha cominciato a stringere contatti con colleghi di altri porti italiani, europei e del Mediterraneo.

Qui però è necessario un passo indietro.

I camalli

I camalli sono un’istituzione, a Genova. Sono chiamati così, fin da tempi remoti, gli addetti alle operazioni di carico-scarico delle merci tra le navi in banchina e i piazzali di sosta, cuore dell’attività di un porto (oggi il termine camallo è usato come sinonimo di lavoratore portuale). Sono lavoratori con una lunga storia di autorganizzazione. La prima moderna cooperativa di lavoratori del porto a Genova nacque nel 1889, al tempo delle prime società operaie di mutuo soccorso. Nel ventennio fascista le cooperative furono sostituite da una Compagnia del lavoro con a capo un “console”, secondo il modello corporativo. Dopo la guerra, nel 1946 nacque la Compagnia unica lavoratori merci varie (Culmv), che gestiva in esclusiva avviamento al lavoro, tutela e formazione professionale dei portuali: le singole imprese di navigazione non potevano assumere manodopera in proprio. La Compagnia, che oggi è ancora attiva, non è mai stata un sindacato: e però ha sempre avuto un ruolo di primo piano nell’autorganizzazione dei portuali. Del resto, dirigenti e soci aderivano per lo più alla Cgil e votavano in massa per il Partito comunista italiano.

Dunque c’è una forte tradizione politica nella storia dei portuali di Genova. Un caposaldo è l’antifascismo. Nel 1960 furono i portuali, insieme all’opposizione di sinistra, a occupare le piazze per impedire che nella città “martire della resistenza” si svolgesse il congresso del Movimento sociale italiano, il partito dichiaratamente erede del fascismo. Fu una rivolta di popolo, con duri scontri con la polizia; portò alla caduta del governo Tambroni, uno dei governi più schierati a destra del dopoguerra italiano.

Poi la lotta sindacale: in quegli anni sessanta di conquiste collettive i portuali ottennero il salario garantito, che metteva fine a disuguaglianze e incertezza (una paga di base indipendente dai giorni di chiamata al lavoro). E s’impegnarono anche nella solidarietà internazionale, per esempio bloccando i cargo di rifornimenti per le truppe statunitensi o per il Cile del generale golpista Augusto Pinochet; o boicottando il Sudafrica dell’apartheid. È rimasta quasi leggendaria a Genova l’impresa del 1973, quando i portuali mandarono una nave carica di viveri e merci in solidarietà alla Repubblica Democratica del Vietnam.

Riccardo Rudino del Calp e Francesco Staccioli dell’Usb, durante il presidio organizzato in via Albertazzi al varco portuale per impedire il passaggio dei mezzi pesanti verso il porto. Genova, 22 settembre 2025. (Luca Zennaro, Ansa)

È una lunga storia: la ricostruisce bene Riccardo Degl’Innocenti, ricercatore indipendente, in un numero speciale della rivista Primo Maggio. Negli anni settanta nacque un Collettivo operaio portuale che segnava l’emergere di una nuova generazione operaia post-sessantottina. Nel 1978 , nel porto di Genova circolava il volantino intitolato “né con lo stato, né con le Br” che rivendicava lo spazio d’iniziativa politica schiacciato dagli “anni di piombo”.

Intanto però il porto stava cambiando. La trasformazione è arrivata con le grandi scatole d’acciaio chiamate container, che hanno rivoluzionato la logistica del commercio internazionale: contenitori standardizzati in cui stipare qualsiasi merce, sollevati da gru e carri-ponte, che passano direttamente dalla nave al rimorchio di un camion o la piattaforma di un treno (il trasporto “intermodale”). I container per le merci, insieme ai traghetti ro-ro (roll on-roll off) per le brevi distanze, hanno trasformato l’organizzazione del lavoro anche nel porto di Genova, il più grande in Italia, ma non certo tra i maggiori su scala mondiale.

Anche perché con l’organizzazione industriale è cambiato anche l’assetto giuridico. Una riforma del 1994 ha stabilito che il porto resta proprietà del demanio pubblico, cioè dello stato, ma ha aperto all’ingresso di imprese private a cui le autorità portuali danno in concessione i terminal (si chiama “modello landlord”).

Tutto questo ha cambiato i rapporti di forza. La meccanizzazione aveva già ridimensionato il lavoro (negli anni settanta i portuali genovesi erano circa ottomila, vent’anni dopo un migliaio). Secondo le nuove norme, le imprese concessionarie dei vari terminal (dette in gergo terminalisti) hanno i propri dipendenti, assunti con il contratto nazionale della categoria. Minacciata nel suo statuto, nel 1996 la Compagnia si è trasformata in cooperativa di lavoratori ed è riuscita (con grandi battaglie) a mantenere un ruolo perché, in caso di picchi di attività, le imprese private possono attingere solo ai suoi soci, non a manodopera esterna. I dipendenti delle imprese private dunque lavorano accanto ai soci della Compagnia unica, svolgendo più o meno le stesse mansioni.

Non saremo complici

Oggi il porto di Genova conta circa 3.500 addetti, di cui 2.300 sono i lavoratori operativi al carico-scarico (dipendenti dei terminalisti o soci della Compagnia, all’incirca metà e metà). La Culmv garantisce alle imprese private la flessibilità necessaria e impedisce che si diffonda anche qui il lavoro precario, interinale e sottopagato tanto presente in altri settori industriali. Allo stesso tempo la Compagnia continua a garantire ai suoi soci meccanismi di compensazione, che si aggiungono a vari istituti previdenziali. “Abbiamo i palmari e i computer”, osserva Riccardo Rudino, “ma alla fine, in un porto di queste dimensioni il lavoro umano continua a contare”.

Dunque il lavoro nel porto di Genova resta relativamente tutelato. “In città, i portuali sono tuttora guardati con grande rispetto”, osserva Riccardo Degl’Innocenti. Una storia di autorganizzazione e di battaglie collettive ha lasciato la sua traccia.

Il Collettivo autonomo lavoratori portuali è erede di questa storia, anche se oggi i suoi attivisti aderiscono per lo più all’Usb, il primo sindacato di base entrato nel porto. Anche il movimento contro la guerra fa parte di questa eredità. “Come i nostri padri e nonni, non vogliamo essere complici del traffico di armi”, riassume Rudino. Insiste a dire traffico perché, spiega, è un commercio che viola le norme italiane e internazionali sulla fornitura di armi ai paesi in guerra. In agosto i portuali hanno scioperato rifiutando di caricare un cannone navale Oto Melara-Leonardo su un cargo saudita. A settembre hanno rifiutato di caricare o scaricare una portacontainer della società israeliana Zim.

L’importanza della solidarietà
Una scrittrice e traduttrice della Striscia di Gaza ringrazia le persone che in Italia manifestano per il popolo palestinese.

“È una questione morale: non vogliamo essere parte dell’ingranaggio della guerra”, insiste Romeo Pellicciari, anche lui del Collettivo autonomo e dell’Usb. “Tanto più che una legge dello stato vieta la vendita e anche solo il transito in territorio italiano di armi, esplosivi e qualunque materiale bellico diretto a paesi in guerra. Eppure questa legge è ignorata, le autorità si rimpallano le responsabilità, negano, fingono di non vedere”.

I portuali però vedono, continua Pellicciari: “Elicotteri, carri armati, veicoli blindati, nelle stive li vediamo. E anche i container con le etichette di esplosivi e altro materiale pericoloso, che per motivi di sicurezza vanno tenuti in superficie”. A volte foto carpite dai lavoratori circolano sui social. Ma non tutto è visibile; materiali smontati e chiusi nei container passano inosservati.

Qui entrano in gioco ricercatori e attivisti per i diritti umani. “Abbiamo due modi per tracciare il movimento di armamenti”, spiega Carlo Tombola, fondatore di Weapon watch insieme a Gianni Alioti e Riccardo Degl’Innocenti: incontro anche loro al Circolo dell’autorità portuale di Genova. “Uno è l’osservazione diretta dei testimoni e coinvolge soprattutto i lavoratori portuali, dato che gran parte degli armamenti viaggia via mare. L’altro è documentale, l’analisi dei documenti che accompagnano le merci”. Il ricercatore allude agli “manifesti di carico”, che elencano in dettaglio cosa trasporta una nave e che vanno consegnati all’autorità portuale; le autorizzazioni all’export di materiale sensibile rilasciate dalle prefetture; i documenti delle dogane, le polizze d’assicurazione. E le ispezioni della capitaneria di porto, responsabile delle misure di sicurezza in caso di materiali pericolosi.

Procurarsi questi documenti non è facile. “Le autorità tendono a non rispondere o sono evasive”, osserva Tombola. “Eppure, gli enti locali sono rappresentati nei comitati di gestione dei porti. I sindaci per esempio possono chiedere alle autorità portuali di rendere pubbliche le informazioni almeno sul movimento di armamenti”.

Un primo caso potrebbe essere quello di Livorno. In settembre un presidio di lavoratori portuali ha impedito l’attracco del cargo Snlc Severn, di proprietà statunitense , che doveva scaricare materiale per la vicina base militare americana di Camp Darby: secondo le informazioni diffuse da Weapon watch, trasporta anche i grandi macchinari della Caterpillar che servono per le demolizioni a Gaza. Sempre a Livorno la minaccia di boicottaggio dei lavoratori il 30 settembre ha costretto una nave portacontainer della società israeliana Zim a lasciare il porto: di fronte alle polemiche, il sindaco Luca Salvetti ha annunciato che chiederà di rendere pubblici i “manifesti di carico” delle navi potenzialmente interessate da traffico di armi. Non solo: “Scioperare è un’azione collettiva, ma non sempre è possibile. Allora è importante il diritto dei singoli lavoratori all’obiezione di coscienza”, osserva Gianni Alioti.

Un piano inaccettabile

Tutto questo ha una dimensione transnazionale evidente. “I porti sono al cuore del sistema militare-industriale mondiale, le supply chain lo alimentano, la logistica lo organizza”, si legge sul sito di Weapon watch. Per questo, insistono i ricercatori, è così importante lo scambio di informazioni tra lavoratori e attivisti in diversi paesi.

Dunque i portuali genovesi cercano di fare rete con quelli di altre città e altri paesi. “Stiamo lavorando da più di un anno a questo coordinamento internazionale”, spiega Riccardo Rudino. La riunione di fine settembre era stata programmata ben prima che si parlasse della missione umanitaria per Gaza. “Sul sostegno alla Flotilla siamo tutti d’accordo. Ma si tratta di un’intera economia di guerra. L’industria bellica mette in moto una filiera lunga, dalla produzione alla logistica dei trasporti”. E questo richiede decisioni politiche, osserva: “Noi portuali possiamo bloccare questo o quel carico di armi, ma fermare l’esportazione di armi ai paesi in guerra spetta ai governi”.

Dopo una giornata di discussioni, il Coordinamento internazionale dei porti ha concluso la sua riunione a Genova con una dichiarazione comune dal titolo “i portuali non lavorano per la guerra”, ripetuto in italiano, inglese, francese, spagnolo su poster e magliette. Chiedono la fine del genocidio a Gaza e dell’occupazione illegale dei territori palestinesi; che si aprano canali umanitari, e che le infrastrutture portuali non siano usate per trasporti militari. Infine, si dicono contrari al programma ReArm Europe della Commissione europea. “Non possiamo accettare il piano di riarmo europeo mentre nei nostri paesi si tagliano salari, sanità, istruzione”, spiegava Markos Bekris, presidente dell’Enedep, il sindacato dei portuali del Pireo, ad Atene.

“Il nostro governo investe 800 miliardi di euro in un piano di riarmo, e saranno tolti alla sanità e all’istruzione”, continua Romeo Pellicciari. Discorso difficile, riconosce Riccardo Rudino: “L’economia di guerra è già una realtà, vediamo fabbriche meccaniche o del settore automotive riconvertite a produrre componenti per armi e veicoli militari: e quando i posti di lavoro dipendono da questo, diventa difficile rifiutarli. Ma dovremo pur chiederci cosa produciamo, a cosa serviranno queste armi”.

In definitiva, riassume, difendere Gaza significa “difendere l’umanità e anche i nostri diritti”. C’era tutto questo, nella mobilitazione dei lavoratori portuali per la Flotilla.

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