22 dicembre 2021 12:53

“Non sono un profeta, e non sono uno stregone, non sono in grado di dirvi cosa accadrà”. Così aveva risposto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres a una domanda sulla probabilità che le elezioni promosse dall’Onu in Libia si tenessero davvero il 24 dicembre, com’era previsto. La domanda era stata fatta durante una conferenza stampa a inizio dicembre. Dopo aver elencato vari problemi relativi alla legge elettorale, Guterres aveva aggiunto: “Faremo di tutto per facilitare il dialogo e risolvere questioni che potrebbero essere viste come elementi di divisione in Libia, perché lo svolgimento delle elezioni possa contribuire alla soluzione dei problemi di quel paese”.

Ma gli sforzi sono stati inutili, visto che il 21 dicembre il capo della commissione elettorale libica ha ordinato lo scioglimento dei comitati elettorali a livello nazionale, una mossa che di fatto rinvia le presidenziali. Si discute di una nuova data, che potrebbe essere il 24 gennaio 2022.

Ancora una volta la proposta di indire delle elezioni in Libia non ha contribuito a risolvere problemi ma, al contrario, ha aggravato le divisioni esistenti. Dire che i libici dovrebbero votare il prima possibile di modo che un governo eletto possa mettersi al lavoro per riunificare le istituzioni significa mettere il carro davanti ai buoi. Il successo più grande della mediazione delle Nazioni Unite è stata la firma di un cessate il fuoco. A parte questo, l’organizzazione internazionale continua a ripetere gli stessi errori che aveva già fatto in precedenza.

Nel 2015 l’Onu aveva costretto i libici a convergere in fretta e furia su un accordo politico che portò alla formazione di un governo di accordo nazionale (Gna), del tutto impotente. Dopo di che aveva portato avanti il dialogo basandosi sul presupposto che il Gna rappresentasse tutta la Libia occidentale, quando in realtà non aveva nemmeno il controllo delle milizie attive in quella parte del paese. Per questo era assurdo parlare di elezioni: in quel momento mancava qualsiasi garanzia di un corretto svolgimento o della disponibilità degli attori coinvolti di accettarne i risultati.

Quando al vertice di Parigi del maggio 2018 le controparti libiche si accordarono per organizzare delle elezioni nel dicembre successivo, l’iniziativa del presidente Emmanuel Macron non portò i risultati sperati. Fino a quel momento, se si esclude qualche scontro di minore entità, i gruppi armati affiliati ai fronti libici contrapposti non erano stati coinvolti in una guerra aperta. Ma nel 2019 il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte dell’est della Libia, lanciò un’offensiva su Tripoli.

L’ultima versione di un accordo politico è stata costruita sulla base della divisione del potere fra tre regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Ancora una volta, però, l’Onu si è rivolta ai politici della Libia occidentale come se facessero parte di una sola entità, mentre la realtà è molto diversa. A governare de facto la Libia occidentale è una coalizione di milizie, correnti politiche e movimenti islamisti, con ideologie diverse e interessi specifici. Nel 2019 le forze dell’ovest hanno messo da parte le loro differenze per bloccare l’avanzata di Haftar. Questi conflitti sono riemersi non appena è stato firmato un cessate il fuoco.

A portare alla situazione attuale è stata la questione della sicurezza a Tripoli, tra gli appelli a boicottare le elezioni lanciati dalla Fratellanza musulmana, che voleva bloccarle a tutti i costi, e la profonda rivalità tra i due principali candidati di Misurata, Fathi Bashagha, ex ministro dell’interno del Gna, e Abdul Hamid Dbaibah, primo ministro dell’attuale governo di transizione. Come se non bastasse, un gruppo armato guidato da Saleh Badi, un altro comandante militare di Misurata, di recente aveva preso d’assedio importanti sedi istituzionali nella capitale, tra cui quella del governo e il ministero della difesa. Badi aveva dichiarato che non ci sarebbero state elezioni presidenziali in Libia, e che avrebbe chiuso tutte le istituzioni dello stato. Badi aveva anche criticato il ruolo svolto dalla consigliera speciale dell’Onu sulla Libia, Stephanie Williams, definendolo criminale.

Un ritorno che ha rimescolato le carte
Se anche la Libia occidentale fosse stata pronta alle elezioni, il voto non avrebbe potuto essere libero e corretto nell’est, dove Haftar mantiene un potere assoluto e irremovibile. Stesso discorso vale per il sud. Oltre a milizie estremiste islamiche e tribali, Haftar si è affidato anche a gruppi di mercenari e si è alleato con i sostenitori dell’ex regime di Muammar Gheddafi per estendere il suo controllo verso il centro e il sud. La famiglia dell’ex dittatore si concentra nella città costiera di Sirte, nella Libia centrale, ma registra una presenza significativa in alcune città nella Libia meridionale, tra cui Sebha.

Muammar Gheddafi manipolava in modo efficace le rivalità etniche e tribali, e alcune comunità originarie della Libia meridionale formavano la colonna portante del suo esercito e delle sue forze di sicurezza. Dopo la rivolta, lo stigma che le tribù filogheddafiane si portavano addosso le ha di fatto escluse dalla possibilità di svolgere un qualsiasi ruolo nella Libia postrivoluzionaria. Haftar ha sfruttato il loro malcontento per assumere il controllo di vaste aree nel centro e nel sud del paese. L’alleanza ha resistito nonostante dispute e tensioni – soprattutto riguardo le rotte del contrabbando – ma è crollata nel momento in cui Saif al Islam Gheddafi, figlio del defunto dittatore, ha annunciato la sua candidatura con un discorso dalla città di Sebha.

Per i suoi sostenitori, il ritorno di Gheddafi è stato come l’arrivo del Messia, anche se invece di un intervento divino sarebbe più corretto parlare di un intervento del Cremlino. Vale la pena ricordare che l’influenza russa in Libia va oltre l’uso dei mercenari, la fornitura di armi e la disinformazione sui social network libici. Per esempio, Mosca aveva messo il veto alla nomina di Williams: ecco perché Guterres l’ha nominata “consigliera speciale” invece di capo della missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil).

Le tensioni hanno raggiunto il culmine quando l’udienza per discutere del ricorso presentato a Sebha da Gheddafi contro la sua esclusione dalle elezioni è stata rinviata perché alcuni combattenti affiliati ad Haftar avevano assediato il tribunale. Per quasi una settimana i giudici non sono riusciti a entrare nell’edificio, mentre gli abitanti del posto manifestavano davanti al tribunale a sostegno di Gheddafi. Quando alla fine i miliziani si sono ritirati, i giudici hanno deciso di riammettere il candidato. Al momento a Sebha sono in corso degli scontri che potrebbero ridefinire la mappa delle alleanze militari tra le forze vicine ad Haftar, e le tribù e i gruppi armati che sostengono Saif al Islam.

Combattenti stranieri e mercenari
La competizione tra potenze straniere aveva inoltre reso ancora più improbabile l’eventualità che le fazioni libiche accettassero i risultati delle elezioni. Secondo le stime dell’Onu, al momento in Libia sono presenti ventimila combattenti stranieri e mercenari, tra cui siriani, sudanesi, ciadiani, senza contare il personale della compagnia di sicurezza privata Wagner. Le autorità libiche hanno chiesto il ritiro dei combattenti stranieri, ma il loro numero non è calato. Nonostante l’embargo sulle armi, i voli che riforniscono le regioni occidentali e orientali della Libia proseguono indisturbati. In ogni caso, secondo gli esperti dell’Onu, le armi presenti nel paese sono più che sufficienti a sostenere qualsiasi conflitto futuro.

Andare al voto senza eliminare i problemi di fondo avrebbe significato che a chi controlla il paese fa comodo interrompere il processo politico e prolungare lo status quo. È già successo dopo il voto del 2014, quando le milizie hanno fatto esplodere la situazione, estendendo a tempo indefinito i mandati delle autorità in carica. Non c’è bisogno di essere un profeta o uno stregone per capirlo, né per sapere che tirare i rami per accelerare la crescita è del tutto inutile in un processo che dovrebbe partire dal basso.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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