Che St. Vincent avesse una forte personalità lo si era capito fin dall’inizio della sua carriera. Già nel 2011, nel suo terzo disco Strange mercy, cantava di non volere essere più una cheerleader, rifiutandosi di aderire a ideali femminili stabiliti da altri, anzi voleva essere lei a plasmare la sua immagine come preferiva.

A sentirla parlare dal suo studio di Los Angeles, negli Stati Uniti, mentre dietro di lei s’intravedono tastiere, sintetizzatori, un mixer e un quadro astratto, l’impressione è la stessa. In collegamento su Zoom la cantautrice parla con grande sicurezza, nascosta dietro un paio di occhiali da sole neri, e conferma lo status di musicista a tutto tondo, che ama avere un controllo totale su quello che fa, e cura ogni cosa nei minimi dettagli. Basta osservare com’è vestita. Una pelliccia bianca le copre la metà destra del busto e sul lato sinistro si vede una camicia nera che richiama i suoi capelli scuri, creando una simmetria che sarebbe perfetta per un videoclip.

La cantautrice di Tulsa, che quest’anno ha ricevuto tre premi ai Grammy awards, sta partecipando a un incontro con la stampa italiana per presentare il suo tour italiano, che partirà il 20 giugno dal Medimex di Taranto, proseguirà il 21 giugno al festival La prima estate a Lido di Camaiore, in provincia di Lucca, e si concluderà il 23 giugno al castello di Udine. A Taranto insieme a St. Vincent ci saranno anche i Primal Scream, mentre alla Prima estate (in programma dal 20 al 22 giugno e dal 27 al 29 giugno) con lei sul palco ci saranno gli Air, i Calibro 35 e la Prima stanza a destra.

A intervistarla siamo in quattro, e ognuno ha due domande a disposizione. Si parla a turno. St. Vincent, contraddicendo la fama di artista che non va d’accordo con i giornalisti, risponde in modo gentile, sorride spesso e scherza. Sembra serena, merito anche “di mia moglie Leah e di mia figlia”, dice.

Il giornalista di Rolling Stone Claudio Todesco le chiede se è d’accordo sul fatto che, dopo aver collaborato con il fondatore dei Talking Heads, David Byrne, i suoi concerti sono diventati più teatrali e coreografati, come se ogni volta dovessero portare in scena un personaggio diverso, tipo la dominatrice di Masseduction, sessualizzata ma anche fredda, quasi robotica. St. Vincent si dice d’accordo su questa interpretazione e quando Todesco le chiede come saranno i concerti della prossima estate dà una risposta che fa capire quanto il nuovo corso inaugurato dal disco All born screaming – un lavoro piuttosto cupo e crudo – sia all’insegna di una maggiore apertura e spontaneità: “Voglio perdermi dentro questa esperienza. E quindi no, non c’è un personaggio questa volta, non sto interpretando una rocker. Sono me stessa. Sarò controllata o scatenata, a seconda di dove mi porta la performance. Questo concerto è un posto in cui tutti possiamo fare lo stesso sogno per novanta minuti. È un’esperienza”.

La mia prima domanda riguarda invece la nuova versione di All born screaming, pubblicata il 15 novembre 2024 con il titolo Todos nacen gritando, che St. Vincent ha riregistrato interamente in spagnolo, cambiando anche alcune parole per questioni di metrica. “Mentre lo facevo mi sono resa conto che per alcune cose l’inglese non funziona per niente. È una lingua poliglotta, è facile da imparare ma non ha tantissime parole da usare. Ho fatto molti concerti in paesi di lingua spagnola, in particolare in America Latina, e mi sono resa conto che molte persone cantavano i miei pezzi a squarciagola in una lingua che non era la loro, per cui pensavo di andargli incontro. Al tempo tesso volevo imparare meglio lo spagnolo, per cui ho sfruttato l’occasione per farlo. Così ho scoperto che in spagnolo alcuni dei versi delle mie canzoni suonavano molto più poetici e ricchi”.

A questo punto mi viene spontaneo chiederle cosa ne pensa del fatto che lo spagnolo fa sempre più concorrenza all’inglese come lingua globale del pop grazie al successo di artisti come Bad Bunny. “Sono d’accordo. È molto bello vedere artisti in lingua spagnola che hanno un ruolo importante nella musica globale. Ma è un discorso che vale anche per altre lingue. Pensa al k-pop: negli Stati Uniti abbiamo milioni di ragazzini che cantano in coreano. È splendido”.

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Quando Elisa Russo del Messaggero Veneto le chiede delle vittorie ai Grammy, St. Vincent risponde: “È sempre un onore, un bel riconoscimento che arriva dagli esperti che sono in giuria. Mi fa molto effetto anche ritrovarmi nominata in categorie assieme ad artisti che amo. Bello essere associata a Nick Cave, Pearl Jam, Kim Gordon, Brittany Howard. E ancor di più fare poi festa con Kim Gordon: abbiamo guardato le performance bevendo champagne”.

Arriva anche il momento della domanda su Gaza, un tema che in questi mesi sta infiammando il dibattito nella musica occidentale.

Quando Alessia Arcolaci di Vanity Fair le chiede la sua posizione sulla questione, la cantautrice replica: “Penso di avere un ruolo, come artista, nell’aiutare in qualunque modo che sia davvero significativo. Che si tratti di fare una donazione o di creare dischi e concerti che possano, almeno, farci sentire più umani, più connessi. Credo che, in un senso più ampio, anche questo possa essere utile al mondo. Non penso che un mio tweet possa mettere fine alla povertà. Per questo per me è importante agire anche in modi meno visibili, ma più concreti. È così che cerco di essere utile. Quello che sta succedendo è orribile, atroce. Ma penso che chi conosce la mia musica, conosce anche il mio cuore e da lì può intuire quali siano i miei valori e la mia posizione”.

La domanda conclusiva tocca a me e così chiedo a St. Vincent che ricordi ha della sua prima chitarra e se la pensa come l’eroina del punk Viv Albertine, che nella sua autobiografia Vestiti musica ragazzi parlava così della sua prima sei corde, comprata insieme al fidanzato dell’epoca, il chitarrista dei Clash, Mick Jones, in un negozio di Denmark street, a Londra: “È come quando incontri qualcuno per la prima volta ma ti sembra di conoscerlo da una vita”. St. Vincent risponde: “Da ragazzina risparmiavo soldi per comprarmi chitarre da pochi soldi e poi mi mettevo di fronte allo specchio, chiedendomi: ‘Come sto? Sono cool come i miei eroi?’. Quando sono diventata più grande giravo per tutti i negozi dell’usato e guardavo le chitarre vintage in vetrina, pensando: ‘Questa mi darà la mia prossima canzone?’. Del resto mettersi al collo la chitarra giusta è come indossare un bel vestito: più sei bella, meglio suonerai. Da quando nel 2016 ho disegnato una chitarra fatta apposta per me e per tutti i corpi femminili, il mio rapporto con lo strumento è cambiato. Ormai la immagino anche in funzione degli altri musicisti, non come una cosa solo mia. E non guardo più le vetrine come prima. Ma non importa, a questo punto ho l’armadio pieno di chitarre, basta aprire quello!”, conclude, ridendo e ringraziando tutti.

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