Quando si ascolta un’artista, è facile idealizzarla. Le canzoni di Arooj Aftab sono così ipnotiche e raffinate e la sua voce così maestosa che, prima d’incontrarla, ti aspetti di trovarti di fronte a una diva tenebrosa. Ma non è così. Quando la cantante pachistano-statunitense arriva nella hall del suo albergo nel quartiere Parioli, a Roma, si mostra subito cordiale, quasi timida. “È la prima volta che mi esibisco a Roma, sono molto emozionata. Appena finiamo l’intervista vado a vedere il Colosseo e poi a fare il soundcheck”, dice subito prima di sedersi su un divano nero, mentre si sistema l’impermeabile di pelle.
Tra poche ore si esibirà all’Auditorium parco della musica con la sua band, un trio chitarra, batteria e contrabbasso. Il 12 aprile era a Lubiana, in Slovenia, e il giorno successivo al concerto di Roma partirà per la data di Milano.
Sta girando il mondo dal 2021, quando è uscito il suo terzo album, Vulture prince, e soprattutto da quando il brano Mohabbat – dedicato a suo fratello Maher, morto proprio mentre l’artista lo stava registrando, e ispirato a un ghazal, un poema della tradizione araba che esprime dolore per la perdita di una persona cara ma anche la bellezza dell’amore – è stato premiato ai Grammy awards come miglior performance di musica globale, trasformandola in una piccola star. Perfino l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha inserito Mohabbat nella sua playlist estiva di quell’anno.
Definire lo stile di Arooj Aftab non è semplice. Una parte della critica ha cercato di assegnarle l’etichetta di artista world music – una definizione che in realtà sarebbe meglio non usare – ma è un modo troppo semplicistico per classificare la sua produzione. Aftab, che vive a New York dal 2010, pur rivisitando la tradizione pachistana e della musica sufi, crea uno splendido ibrido tra jazz, pop e classica contemporanea. Soprattutto, poi, canta in un modo unico. In alcuni momenti sembra nascondere la voce in mezzo agli strumenti, in altri la fa svettare in tutta la sua forza, senza ricorrere mai a virtuosismi gratuiti. “La mia voce non dev’essere sempre il centro del pezzo, a volte è semplicemente lì, come se fosse una tromba o un basso”, spiega.
Dallo scorso febbraio Aftab sta portando in giro per il mondo le canzoni di Night reign, il suo ultimo disco, uscito nel 2024. Un album diverso da Vulture prince, dedicato al tema della notte, nel quale vengono fuori in modo più evidente le influenze del jazz statunitense. Diversi brani parlano di amori non corrisposti, nottate alcoliche e cose semplici e quotidiane. Brani che stanno funzionando bene anche ai concerti. “Il tour finora è andato molto bene. Alcuni spettatori sognano a occhi aperti, come se stessero vivendo un’esperienza trascendentale, soprattutto con i pezzi di Vulture prince. Durante lo spettacolo cerco di parlare molto con le persone in sala, anche di scherzare. Molti, dato che canto quasi sempre in urdu, sono convinti che le parole delle mie canzoni riguardino temi sacri, mistici e antichi. Si aspettano di venire a uno spettacolo un po’ austero, contemplativo. Ma non è così, anzi. Il mio messaggio è: ‘Ragazzi, non sono seria come pensate. Faccio anche canzoni d’amore, che parlano di whisky e hangover’”, spiega la cantante. “Il fatto che abbia avuto un successo così grande con un brano introspettivo come Mohabbat ha portato la stampa e una parte del pubblico a etichettarmi subito come un certo tipo di artista. Night reign è diverso, è un disco più divertente, e cerco di comunicarlo a chi viene a sentirmi, anche se non può capire le parole delle mie canzoni. Per convincerli che non mi prendo troppo sul serio di solito offro degli shot di whisky alle prime file”, aggiunge.
Uno dei punti di forza di Night reign, oltre alle sue atmosfere soffuse, sono le collaborazioni. Nel disco compaiono, tra gli altri, la poeta e rapper Moor Mother, la chitarrista Kaki King e Marc Anthony Thompson dei Chocolate Genius, Inc.
Di recente, inoltre, è uscito il remix del singolo Raat ki rani, curato dalla band psichedelica texana Khruangbin. “Mi piace coltivare amicizie con musicisti speciali come i Khruangbin, il lavoro di squadra funziona. Loro apprezzano la mia musica e mi hanno invitata a fare qualche data insieme negli Stati Uniti tra settembre e ottobre. Siamo diventati subito amici e, siccome il mio management voleva pubblicare qualche remix quest’anno, ho pensato di chiedere a loro. Hanno tirato fuori una versione molto ritmata. Usciranno altri remix nei prossimi mesi”, dice la cantante, che dà risposte piuttosto brevi, ma sempre puntuali.
A proposito di Raat ki rani, nel brano la voce di Aftaab è modificata con l’autotune, una scelta inusuale per una cantante come lei. “Alcune persone sono puriste, altre apprezzano quando un artista fa quello che gli pare. La mia voce è considerata bella e seducente, ho pensato che sarebbe stato interessante sporcarla con un effetto come l’autotune, quindi in studio ho chiesto al produttore di aggiungerlo. Quando abbiamo ascoltato la versione finale abbiamo pensato che era fighissima. C’è la tendenza a considerare l’uso dell’autotune come una specie d’imbroglio, soprattutto quando si pensa ai rapper. A me sembra semplicemente una cosa razzista. Si utilizza da un sacco di anni nel pop. È un effetto come un altro, non capisco tutto questo clamore”.
Il suo pezzo preferito di Night reign, ci tiene a dirlo, è quello di apertura, Aey nehin. Il testo, un adattamento di una poesia dell’amica attrice e scrittrice Yasra Rizvi, parla di una persona che aspetta qualcuno, probabilmente un amante, che non arriva mai. Alcuni versi recitano: “Dev’essere successo qualcosa, nella sua città è scesa la notte, deve aver soffiato il vento, deve aver piovuto”.
In altri brani, come Whiskey, cantato in inglese, si parla semplicemente di due amici seduti al tavolo di un bar che alzano troppo il gomito. “La semplicità è importante”, chiarisce Aftab, “non servono tante parole o tanti suoni ad alto volume per essere efficaci. Per la melodia di quel pezzo, in un certo senso, ho pensato a Billie Holiday, da sempre una delle mie fonti d’ispirazione”.
Tra gli artisti che apprezza di più c’è anche Jeff Buckley: “Qualche anno fa ho scoperto che aveva una passione particolare per Nusrat Fateh Ali Khan, uno dei più grandi musicisti sufi di tutti i tempi. La cover che ha fatto del suo brano Yeh jo halka saroor hae, cantata in urdu, mi ha colpito molto, ho sentito una connessione celestiale con la sua voce”.
Arooj Aftab, che tornerà in Italia l’estate prossima per due date a Ravenna e a Torino, ha una biografia particolare. È nata in Arabia Saudita, ma quando aveva undici anni i suoi genitori hanno deciso di tornare a Lahore, in Pakistan. “Poco dopo ho scoperto la mia passione per la musica. Avevo una chitarra cinese da due soldi e ho imparato a suonare da autodidatta. Poi per un compleanno i miei amici hanno fatto una colletta e mi hanno regalato una bella Yamaha. Suonavo pezzi semplici: Wonderwall degli Oasis, Seven nation army dei White Stripes e With or without you degli U2. E anche qualche brano di musica classica come Il volo del calabrone. All’inizio pensavo che non avrei mai cantato nella mia vita, volevo fare solo musica strumentale. A quindici anni ho registrato una cover di Hallelujah di Leonard Cohen e l’ho messa su YouTube ed è diventata piuttosto popolare. Ma ero una bambina, ancora non avevo il controllo totale della mia voce. Non la riascolto da tantissimo tempo, forse è meglio così”, dice ridendo.
Qualche anno dopo ha vinto una borsa di studio per il Berklee college of music di Boston, dove ha studiato produzione e ingegneria del suono, e poi si è trasferita a New York. Ha pubblicato due dischi, accolti bene dalla critica, ma solo dopo la pubblicazione di Mohabbat – scherzando la definisce “la mia hit, mi tocca suonarla a ogni concerto, ma va bene così” – e di Vulture prince la sua carriera è definitivamente decollata.
Che effetto le ha fatto ricevere un Grammy? Quanto ha cambiato il suo approccio al lavoro? “Voglio vincerne un altro, il Grammy che si trova nella libreria di casa mia si sente molto solo e vorrebbe un fratellino. È tutto dorato, è un sacco pesante, cazzo è davvero figo. Ovviamente vincerlo mi ha cambiato la vita e ha dato una spinta alla mia carriera. Ma è molto difficile conquistare un riconoscimento del genere. Sono stata candidata altre sette volte, ma sono tornata a casa a mani vuote. Al tempo stesso, però, non voglio fare compromessi con la mia musica. Non voglio essere schiava dei premi e degli applausi”, conclude la cantante. Il tempo per l’intervista è finito, ci salutiamo. Prima delle prove e del concerto, Arooj Aftab ha una missione da compiere: deve vedere il Colosseo.
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