“Sono nato in provincia di Bolzano, in una terra attraversata da tensioni etniche e questo mi ha reso consapevole del fatto che la guerra non è solo l’invenzione più crudele dell’umanità, ma anche l’invenzione più duratura”. Così scriveva Alexander Langer, riconoscendo quanto all’origine di tante sue azioni e riflessioni ci fossero le esperienze della sua adolescenza e giovinezza in una terra di confine.

Nato in una famiglia di lingua tedesca a Vipiteno (Sterzing) nel 1946, scelse di frequentare il liceo italiano dei francescani a Bolzano. Bastano i titoli delle due prime riviste che promosse – Offenes wort/Parola aperta, che fondò da studente; e Die brücke (Il ponte), che inaugurò con altri nel 1967 – a mostrare il suo netto rifiuto verso ogni appartenenza etnica esclusiva. Un rifiuto che lo ha sempre accompagnato fino all’anno prima di morire, quando nel 1994 gli fu impedito di candidarsi a sindaco di Bolzano perché nel 1991 non aveva accettato di partecipare al “censimento etnico” nella sua provincia.

Il 3 luglio sono trent’anni che Langer è morto, scegliendo di togliersi la vita sotto un albicocco della campagna di Firenze. Eppure, anche nel momento in cui ha scritto “me ne vado più disperato che mai”, ha voluto aggiungere un ultimo biglietto con un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.

Mi sembra allora importante, in questo anniversario, tornare ad alcuni suoi insegnamenti, ricordandolo insieme a tante e tanti che hanno provato a continuare in ciò che era giusto.

Langer era una delle persone più curiose, attente e capaci di identificarsi in vite diverse dalla sua che abbia mai incontrato. Aveva una capacità rara di raccontare storie, e quando si dedicava a cercare di capire gli eventi di regioni e paesi lontani partiva sempre dalle vicende individuali, da vissuti e informazioni che era più da romanziere che da sociologo, pur avendo dedicato tutta la sua vita alla politica, tentando senza risparmiarsi di provare a “fare pace tra gli uomini e pace con il creato”, come ripeteva, immaginando e promuovendo trasformazioni ecologiche e sociali nonviolente, tanto più necessarie e urgenti quanto difficili da realizzare pienamente.

Alex, come lo chiamavamo noi amici, sapeva che non esiste un’unica Storia con la S maiuscola, capace di comprendere le tante storie minuscole che abitano regioni vicine e lontane. La sua capacità di abbracciare, mettere a confronto e tenere presenti punti di vista diversi costituiva il suo modo di avvicinarsi alle persone e alle cose del mondo, insieme a una passione per la precisione dei dettagli e per le lingue, che allenava quotidianamente nel passare dall’italiano al tedesco nel suo scrivere, parlare e ragionare.

Simbolo fisico di questa sua collezione di storie legate alle persone era una mitica agendina che portava sempre con sé, della quale condivideva a volte elenchi di amicizie e contatti che a me apparivano sterminati, anni prima che internet irrompesse nelle nostre vite.

Il tratto che distingueva il suo fare politica stava nella sua capacità di mettere in contatto e comunicazione persone e gruppi distanti per alimentare e promuovere campagne al tempo stesso locali e globali, fondate tuttavia su relazioni umane che non si limitassero a una composizione di appartenenze. Per il modo in cui la utilizzava, la sua agendina prefigurava un programma efficace di elaborazione di nuove idee e di resistenza.

Sono tante le esperienze di trasformazione che ha promosso e che auspicava con lungimiranza. Mi è capitato più volte di proporre a ragazze e ragazzi alcuni suoi scritti e sempre mi sono accorto come la qualità del suo pensiero riesca ancora oggi ad andare oltre alle occasioni contingenti del suo scrivere, proiettando nel futuro una radicalità utopica, visionaria e concretissima al tempo stesso.

Alexander Langer ha affrontato in modo del tutto originale tre temi ancora di grande attualità: la conversione ecologica, la convivenza interetnica e la scelta della nonviolenza e del dialogo come forma di prevenzione e opposizione assoluta a ogni guerra.

La conversione ecologica

Langer aveva una grande attenzione per le parole. Anche se scriveva spesso di corsa, nei suoi articoli e interventi c’è sempre una grande cura del linguaggio. Per primo usò e propose il concetto di conversione ecologica, che non era per lui riforma, riconversione e nemmeno rivoluzione. Non si accontentava dell’ambiguo sviluppo sostenibile, ossimoro con cui sono spesso giustificati i peggiori compromessi. La conversione ecologica proposta da Langer riguardava piuttosto una trasformazione del contesto agricolo, produttivo, abitativo e sociale che fosse accompagnata e sostenuta da un cambiamento della nostra coscienza individuale e da una nuova relazione con il pianeta e tutte le forme di vita che lo abitano.

Affermare che “la transizione ecologica non si potrà realizzare fin quando non diventerà socialmente desiderabile” poneva e pone al centro dell’impegno politico la costruzione di una cultura in grado di sostenere una trasformazione profonda dei pensieri e dei comportamenti individuali e collettivi, che necessariamente deve partire dal basso.

“Potranno aiutare a cambiare strada le mille piccole conversioni e riconciliazioni”, spiegava in un convegno del 1994 ad Assisi, “i mille piccoli digiuni e disarmi, le mille piccole scelte alternative, che non attendono il via dal ponte di comando né rimandano ad improbabili vittorie finali l’impresa della ricostruzione”.

“Perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile”, precisava, “è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. (…) Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo) attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero ‘regresso’ rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte”, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.

Un decalogo per la convivenza

“Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono ‘traditori della compattezza etnica’, ma non ‘transfughi’”. Così recita il titolo dell’ottavo punto dello scritto più nitido e lungimirante che ci ha lasciato Langer. Nelle ultime stagioni della sua vita ha infatti lavorato a un testo che ha voluto intitolare: Tentativo di decalogo per una convivenza interetnica. Consiglio di leggerlo o rileggerlo perché, nell’esporre i necessari passi per costruire un’arte del convivere capace di contrastare il ritorno di etnocentrismi sempre più aggressivi, parte sempre da esempi concreti, ancorati a esperienze vissute da minoranze illuminate, da azioni di donne e uomini che lui riteneva capaci di comportarsi da “piante pioniere”, in grado cioè di crescere e moltiplicarsi dissodando il terreno della convivenza nelle nostre città, per renderlo più fertile e abitabile.

Negli anni novanta, nel pieno della mattanza genocida in Bosnia, con l’assedio di Sarajevo che durava da più di tre anni, Langer si è trovato a doversi confrontare con il nodo, forse impossibile da sciogliere, del cercare modi per conciliare la difesa degli aggrediti e degli inermi con il rifiuto di ogni tipo di guerra, in coerenza con la scelta assoluta della nonviolenza.

Il suo modo di reagire con grande sofferenza alle contraddizioni poste da una guerra sempre più cruenta, che sembrava non finire mai, fu di incessante impegno nel creare occasioni e contesti per mettere in relazione coloro che, nei campi contrapposti, rifiutavano la logica della guerra e della soppressione del nemico. Le tante lacerazioni irrisolte, che ha vissuto sulla sua pelle in quelle stagioni, hanno certamente contribuito alla sua drammatica scelta finale.

Eppure, anche in quel drammatico frangente, si è speso con intelligenza nell’elaborare la proposta di un’istituzione che oggi appare ancora più necessaria: la creazione di corpi civili di pace europei che arrivò a essere presentata al parlamento europeo, come possibilità concreta di dare vita al progetto “semplicissimo e immenso, di fare da ponte tra le parti in lotta”, come ricorda Goffredo Fofi nell’introduzione all’ultima edizione di Il viaggiatore leggero (Sellerio 2011), la più organica raccolta di scritti di Langer.

Nelle note autobiografiche del 1986, intitolate Minima personalia, Langer racconta che da piccolo un giorno domandò perché suo padre non andasse in chiesa. “Mia madre mi spiega che mio padre è di origine ebraica, ma che ‘non conta tanto in che cosa si crede, ma come si vive’”.

La ricerca di un’assoluta coerenza tra il come vivere e in cosa credere è la tensione che ha animato e alimentato tutta la vita di Langer. Per questo credo che trent’anni fa, nelle stagioni successive alla sua morte prematura, per reagire allo smarrimento e al grande vuoto lasciato dal compagno di tante lotte e iniziative, un gruppo di amiche, amici e collaboratori scelse di istituire un premio a suo nome, che in qualche modo gli somigliasse.

Essendo impossibile raccogliere personalmente l’eredità di una vita così estrema per coerenza e radicalità, quel gruppo ritenne che fosse significativo cercare ovunque donne, uomini o piccoli gruppi che incarnassero nel loro operare modi concreti di opporsi ai mali del mondo.

Un modo, mi viene oggi da pensare, di continuare la compilazione della sua agendina, colma di persone in carne e ossa da far conoscere tra loro e mettere in comunicazione per darsi coraggio, perché essere individualmente degli hoffnungsträger, dei portatori di speranza, è impresa che può diventare insostenibile.

Il premio internazionale

Il primo premio fu assegnato nel 1997 a Khalida Toumi Messaoudi, ferma oppositrice della carneficina islamista che in un decennio in Algeria causò più di centomila morti. In quell’occasione Khalida Messaoudi affermò: “Detesto le carceri e le gabbie, non solo quelle fisiche, ma soprattutto quelle mentali, contro cui Alexander Langer ha combattuto tutta la vita. Sono felice di ricevere questo premio perché significa che ci sono, al di fuori dell’Algeria, tante persone che riconoscono che la lotta delle donne e degli uomini democratici algerini appartiene a tutti gli uomini e donne democratici del mondo. Consegnarmi questo premio è riconoscere a me algerina, cioè africana, musulmana, berbera, araba, mediterranea, lo statuto dell’universalità”.

Il secondo anno furono premiate due donne del Ruanda: la tutsi Yolande Mukagasana e la sua vicina di casa hutu Jacqueline Mukansonera, che la nascose per settimane sotto il lavello della sua cucina, salvandola dal massacro della sua etnia nel più spaventoso genocidio del dopoguerra, in cui in tre mesi nel 1994 furono uccisi più di ottocentomila tutsi.

Ricevendo il premio le due donne dissero: “Conoscendo la verità il nostro popolo avrà più possibilità di salvezza. Testimoniando su quello che è successo in Ruanda, giustizia finirà per essere fatta. E così si aprirà quella che è l’unica strada possibile: la riconciliazione del popolo ruandese. Se prevarrà invece il silenzio, la storia non farà che ripetersi”.

Per molti anni la cerimonia del premio si è svolta in tre tappe: durante l’incontro Euromediterranea, promosso dalla fondazione Langer a Bolzano; alla fiera delle Utopie concrete, che dal 1988 Langer promuoveva a Città di Castello; e alla camera dei deputati, che ha permesso alle premiate e premiati di portare la radicalità del loro messaggio nel cuore delle istituzioni.

In quasi trent’anni, con una breve interruzione, è stata premiata una psichiatra bosniaca, una pediatra kosovara, un’ostetrica di Bali e una donna somala che alle porte di Merca è riuscita a costruire con orfani e vedove della guerra civile il villaggio di Ayuub, cresciuto fino a tremila abitanti, l’unico in cui le bambine hanno continuato a frequentare la scuola anche negli anni più bui delle milizie islamiste al potere.

È stato premiato anche un operaio del petrolchimico di porto Marghera, un giovane sudafricano che si è battuto perché le cure contro l’hiv potessero arrivare a tutti, un’associazione che promuove la musica negli ospedali, un’ong attiva nell’isola greca di Lesbo per contrastare angherie e discriminazioni subite dagli immigrati e molte altre e altri, tra cui l’associazione Adopt Sebrenica, che da dieci anni tesse faticosamente un dialogo tra le diverse comunità nella città in cui durante il conflitto in Bosnia si è compiuto l’unico massacro definito come genocidio in Europa dopo la seconda guerra mondiale, con l’assassinio di 8.372 musulmani bosniaci da parte delle truppe criminali del generale serbo Ratko Mladić.

Bekir Halilović, di Adopt Srebrenica, racconta che “qui si nasce automaticamente con una deformazione che si chiama nemico”. E Irfanka Pašagić, direttrice dell’associazione Tuzlanska amica, afferma: “Come tutto il resto in Bosnia Erzegovina, anche la memoria di Srebrenica è divisa in due: il prima e il dopo della guerra. (…) Sapevo che conservare i racconti di Srebrenica ‘prima’ significava credere che il male non può trionfare e che un nuovo futuro può essere costruito su quello che di buono c’era e che non può e non deve essere distrutto e dimenticato. (…) Parecchio tempo fa ho imparato che le ferite provocate dalla cattiveria umana possono essere curate solo con la bontà umana”.

“I nostri premiati sono donne e uomini molto diversi fra loro per inclinazioni politiche e religiose, estrazione sociale, età, professione, ruoli familiari”, ha scritto a vent’anni dall’istituzione del premio la storica Anna Bravo, che ha fatto parte del comitato scientifico di garanzia della fondazione Alexander Langer-Stiftung.

“È una bella e interessante eterogeneità”, annotava ancora Bravo, “e una conferma che non esiste una ipotetica ‘personalità altruista’, un ‘tipo umano’ predisposto al bene, né gruppi sociali, professionali, politici, caratterizzati da una maggiore presenza dell’uno o dell’altro ‘tipo umano’. Esistono, piuttosto, persone che scelgono il bene e continuano a sceglierlo di fronte a determinate situazioni, in primo luogo nell’incontro empatico con la vulnerabilità di chi soffre per l’ottusa banalità del male, per gli effetti della devastazione dello sfruttamento, per l’avarizia del mondo di fronte all’enormità della tragedia delle migrazioni, per le guerre, per il terrorismo. Mi sembra questo il punto di contatto più spiccato, che si intreccia al registro della cura, la virtù quotidiana cara a Todorov, la virtù di chi guarda gli esseri umani prima che alle ideologie e ai programmi cosiddetti complessivi”.

Il premio internazionale Alexander Langer di quest’anno è stato assegnato a gennaio a due organizzazioni di volontariato che affrontano “con modalità nonviolente e spirito di collaborazione e di dialogo” il pluridecennale conflitto in Cisgiordania. Youth of sumud si fa interprete con perseveranza (sumud) della resistenza nonviolenta popolare nell’area delle colline a sud di Hebron, e Ta’ayush, espressione della società civile israeliana che agisce per “vivere insieme”, palestinesi e israeliani.

L’assegnazione del premio di quest’anno ci riporta al 2001, quando furono premiati il palestinese Sami Adwan e l’israeliano Dan Bar-On, che insieme ad Adnan Musallam e Eyal Naveh avevano scritto La storia dell’altro (Una città 2003).

Disarmare la storia

Un testo nato dalla ricerca comune che, alla fine del secolo scorso, un piccolo gruppo d’insegnanti palestinesi e israeliani hanno intrapreso nel tentativo di scrivere insieme un libro di storia della loro terra, destinato alle scuole.

Hanno lavorato molti mesi tra mille ostacoli, dovendo superare ogni volta i check point dell’esercito israeliano per incontrarsi. Dopo interminabili discussioni e bozze e scritture che non arrivavano mai a convincere tutti, hanno concluso che era impossibile riunire in un’unica storia memorie così distanti e contrapposte, su ciò che era successo nell’ultimo secolo in Palestina.

Ma poiché erano radicalmente pacifisti e animati dal comune intento di far conoscere ai ragazzi e alle ragazze dei due popoli “il racconto degli eventi storici contemporaneamente da due punti di vista”, non hanno abbandonato la sfida e hanno deciso di pubblicare il libro, che è stato stampato in arabo e in lingua ebraica.

Il libro si presenta così: ci sono tre colonne, in una c’è la storia raccontata dai palestinesi, in un’altra la storia raccontata dagli israeliani e in mezzo una colonna vuota, con le righe di un quaderno non scritto. “Noi siamo arrivati fin qui. La storia comune la scriveranno i nostri figli o le future generazioni”, hanno raccontato, ricevendo il premio Langer. “Giorni fa eravamo insieme in un incontro nell’Irlanda del Nord e qualcuno ha usato un’espressione molto appropriata: siamo impegnati a disarmare la storia. Ecco, crediamo sia una bella immagine. Noi vogliamo che la storia non sia una fonte di guerra; siamo impegnati su questo obiettivo”.

A 24 anni dall’assegnazione di quel premio sappiamo che la scrittura comune di un libro di storia di quella terra contesa si è allontanata ancora di più. Eppure lo sforzo per la realizzazione di quel testo, con la colonna bianca in mezzo ancora da scrivere, credo sarebbe stata molto apprezzata da Alexander Langer, che ha speso tutta la sua vita ad azzardare e facilitare collegamenti tra popolazioni contaminate dall’odio, consapevole che non è possibile costruire nessun ponte che non abbia punti d’appoggio in tutte e due le sponde.

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