È arrivato nelle sale un piccolo capolavoro, Presence di Steven Soderbergh. Un horror che dovrebbe piacere a chi non è un amante del genere e un oggetto teorico privo di pesantezza anche per chi cerca un buon divertimento estivo poiché veicola senso e spettacolo evitando gli eccessi, sottraendo per aggiungere.

Interamente girato in interni, gioca con la suspense e la paura in una maniera che potremmo definire soffusa proprio come è soffusa l’illuminazione di questo film d’atmosfera, che insieme all’inquietudine riesce paradossalmente a trasmettere perfino un senso di delicatezza e di serenità. Soderbergh sa essere un grande attraversatore dei generi senza mai imprigionarsi in nessuno, nel senso che non solo spazia da un genere all’altro (privilegiando il thriller) ma ne ibrida vari in uno stesso titolo. L’horror finora non era quasi stato esplorato dal cineasta, se si eccettua Unsane (2018), del tutto privo però della dimensione soprannaturale come invece qui.

In verità il vero tema è la memoria, aspetto ancor più interessante se si tiene a mente che Soderbergh indaga la contemporaneità, come anche in questo caso, a cui si aggiunge una forma di denuncia non solo della violenza sulle donne ma della condizione femminile nella cultura statunitense. Una condizione quasi disperata ma non esibita, seppure a un certo punto diventi abbastanza esplicita. È un urlo che non trova il suo sfogo, come di chi vive in uno stato di perenne apnea dal quale non riesce a uscire, o ancora in perenne stato di confusione, come dice nel film una medium. In stato confusionale proprio come la famiglia media americana di oggi ma, contrariamente a quest’ultima, la presenza evocata nel titolo sa di avere una missione da compiere.

Una famiglia statunitense benestante e ibrida: lui bianco, lei asiatica e i due figli adolescenti, un maschio e una femmina, ne sono la sintesi e insieme l’antitesi. Li vediamo arrivare poco dopo nella casa vuota mentre dall’alto la camera dai movimenti sinuosi ed eleganti si muove leggera come uno spirito osservando dall’alto l’agente immobiliare che sta per entrare poco prima dell’arrivo dei futuri proprietari. Madre e figlio – di cui è presto evidente che siano molto vicini, anche troppo – forzano le cose sull’acquisto rispetto al padre e alla figlia, più restii. Dissolvenza in nero, e l’azione torna sulla casa acquistata, sul trasporto dei mobili e sugli imbianchini: uno di loro percepisce una presenza in una delle stanze e si rifiuta di lavorarci. Di nuovo dissolvenza in nero.

A quel punto vediamo la famiglia che si è ormai stabilita. Un’entità, però, comincia a fare strani scherzi – oppure gentili attenzioni – alla figlia Chloe, come spostarle i tanti libri disposti sul letto, sulla scrivania e sulla mensola mentre lei sta facendo la doccia. I libri di studio sono saggi di storia per lo studio, il romanzo rimesso delicatamente nella mensola pare invece un romanzo d’amore: You always/you never, è il titolo, Alice Hughes l’autrice: libro e scrittrice che rimandano a un altro film di Soderbergh, Lasciali parlare (2020).

Sintesi e antitesi

Già da questi indizi si comprende che rispetto a quest’America tutta concentrata sulla carriera, gli interessi materiali e il presente, Chloe è invece sensibile alla memoria, all’interiorità e ai sentimenti altrui come attestano anche le tante immagini pittoriche di animali, dal sapore quasi fantastico. Soprattutto pare aperta all’invisibile, allo squarcio del velo delle apparenze. La stanza del fratello Tyler è invece immersa nel sé del suo occupante, un sé già tronfio dei suoi trionfi sportivi: troneggiano sui muri le coppe e medaglie vinte e giganteschi poster di lui che nuota.

Poco dopo sentiamo il padre Chris parlare molto preoccupato per Chloe, reduce da un evento traumatico, che si è come chiusa e comunica ancor meno di prima: “Scatta ogni volta che sente un rumore in strada”. La madre Rebekah invece resta distante, nega senza essere esplicita, provocando una reazione irritata di Chris, che le lancia: “Hai mai notato che i tuoi consigli implicano sempre e solo che noi non dobbiamo mai fare niente?”.

Sono quasi due famiglie antitetiche, due Americhe, due umanità, l’archetipo di Caino e Abele rielaborato e ampliato, due perenni antinomie – you always/you never – che si trovano messe allo specchio in questo bellissimo villino in legno, moderno e antico, che ha saputo fondere il presente con il passato e di cui permane uno splendido mobile con specchio antico di cento anni. Tutto il contrario di questa umanità: la madre che cerca di convincere Tyler che le frodi finanziarie le ha fatte per amore verso di lui; e un padre situato invece tra le due sponde, quella spirituale e quella materiale, teneramente attento alla figlia e spesso irritato dal figlio.

Ma presto arriva in casa un’altra presenza, quella di un amico di Tyler che guarda Chloe con uno degli sguardi più glaciali visti al cinema negli ultimi anni.

Siamo però lontani dagli adolescenti mostruosi di Scream, capolavoro di Wes Craven, e più dalle parti di tanto cinema e manga giapponese che narra storie di fantasmi malinconiche, metafore della solitudine umana.

Film anomalo nel cinema statunitense per toni e modalità. E mai manicheo, mai schematico (specchio della filmografia del regista), la presenza è il cinema stesso, qui femmineo, una presenza fantasmatica più forte che mai, a cominciare dai suoi procedimenti. Tutto è girato in soggettiva con movimenti circolari e avvolgenti, diviso in tanti capitoletti mediante dissolvenze in nero, ciascun capitoletto è girato in piano sequenza: per la teoria del cinema – si pensi ad André Bazin – il procedimento principe per la riproduzione del reale al cinema, proprio perché privo degli artifici del montaggio.

La presenza è quindi cinema puramente inteso come spiritualità: del resto Bazin era un critico e teorico cattolico quasi mistico. Peccato aver esplicitato la dimensione mistica con il riferimento al Cristo del nome Chris: bastavano le allusioni alla madre religiosa per costruire il bel ritratto di un laico penetrato dal dubbio costante.

Presence è il vero film della permanenza della memoria degli Stati Uniti e dell’umanità attraverso un’abitazione e un luogo, al contrario dell’edificante e melenso Here di Robert Zemeckis, che rispetto al graphic novel di Richard McGuire da cui è tratto non inventa o reinventa alcun procedimento. L’antitesi di Presence.

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