Nel bilancio approssimativo delle notizie più importanti sull’Africa che abbiamo pubblicato quest’anno su Internazionale, non c’è molto spazio per l’ottimismo nonostante gli sforzi per diversificare le storie e le prospettive. Oltre a due grandi guerre che non accennano a fermarsi (Sudan e Repubblica Democratica del Congo), un vero flagello è stato il secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti. Mi ero illusa che il suo ritorno al potere non avrebbe toccato più di tanto il continente, e che lui avrebbe continuato a ignorarlo (nel primo mandato la sua uscita più significativa era stata quella sugli shithole countries). Mi correggo: Trump ha a tutti gli effetti continuato a ignorare il continente, però i danni collaterali delle sue politiche sono stati enormi. E, quelle volte che malauguratamente ha deciso di interessarsi a un certo paese, i governi finiti sotto i riflettori – come Sudafrica e Nigeria – non se la sono passata bene.

Neanche un mese dopo il suo insediamento Trump ha tagliato drasticamente gli aiuti umanitari e allo sviluppo, ha progressivamente smantellato i programmi per la lotta all’aids e l’agenzia Usaid, che forniva un’assistenza preziosa in tante parti del continente. Sul primo tema abbiamo pubblicato due copertine, una a firma del giornalista statunitense George Packer, affiancata da un intervento dell’opinionista keniano Patrick Gathara che invitava a ripensare il sistema degli aiuti per renderlo meno colonialista. La seconda, più recente, aveva come articolo centrale una riflessione dello storico britannico Adam Tooze, che ha analizzato i risultati deludenti del sistema basato sugli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. In ogni caso i risultati immediati dei tagli statunitensi sono stati “devastanti”, come ha scritto l’Economist.

Trump ha poi lanciato la sua guerra commerciale contro il resto del mondo travolgendo anche i paesi africani. Un caso da esaminare è stato quello del Lesotho, minacciato inizialmente con dazi del 50 per cento, poi ridotti al 15 per cento. Nel piccolo regno di 2,3 milioni di abitanti, completamente circondato dal Sudafrica, c’è una fiorente industria tessile controllata da imprenditori asiatici che produce soprattutto per gli Stati Uniti. Il semplice annuncio delle nuove imposte ha rischiato di farla crollare e ha costretto gli imprenditori locali a cercare nuovi mercati. Altrettanto scompiglio si è creato tra i produttori di vaniglia del Madagascar, acquistata in grande quantità dall’industria alimentare statunitense.

Il Sudafrica nel mirino

Un altro grande capitolo dell’attualità africana del 2025 ha al centro sempre l’amministrazione Trump e il suo scontro frontale con il Sudafrica: prima Washington ha offerto asilo politico agli afrikaner (i discendenti dei coloni bianchi che s’insediarono in questa parte dell’Africa a partire dal seicento), accusando il governo di Pretoria di non proteggere la minoranza bianca (e qui, se ricordate, c’era ancora il miliardario d’origine sudafricana Elon Musk a sussurrare all’orecchio di Trump); poi a maggio c’è stata la visita del presidente Cyril Ramaphosa alla Casa Bianca, dove ha ricevuto un’accoglienza a dir poco ostile; infine gli Stati Uniti hanno boicottato il vertice del G20 a Johannesburg di fine novembre, annunciando che il paese africano non sarà invitato a Miami il prossimo anno.

Al di là delle questioni di facciata, è chiaro che alcune posizioni del Sudafrica sono in netto contrasto con quelle statunitensi, per esempio quelle sulla Palestina (Pretoria aveva denunciato Israele per atti di genocidio presso la Corte internazionale di giustizia), su disuguaglianze e cambiamento climatico (i due argomenti sono stati al centro della dichiarazioni finale del G20 presieduto dal Sudafrica, mentre sono stati completamente eliminati dalla lista delle priorità del governo statunitense), sui rapporti da mantenere con Mosca e Pechino. Secondo il settimanale sudafricano The Continent – che continua a essere una delle mie letture di riferimento – “il coraggioso tentativo del Sudafrica di farsi avanti e fare da collante per salvare il multilateralismo” è una delle notizie che quest’anno hanno dato più speranza. Sono d’accordo con loro.

Per il resto, le guerre purtroppo continuano a dominare l’attualità. Il conflitto più devastante, in Sudan, ha visto due momenti di svolta quest’anno: il primo, a marzo, quando le forze dell’esercito guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan hanno riconquistato la capitale Khartoum; il secondo a novembre, quando i loro avversari, i paramilitari delle Forze di supporto rapido, hanno fatto capitolare la città di Al Fashir, prendendo il controllo di tutta la regione del Darfur. A novembre con un articolo di copertina ripreso dal sito sudanese Atar Magazine abbiamo raccontato la caduta della città e la tragica fuga dei suoi abitanti. Per un attimo è sembrato che quei massacri avessero smosso qualcosa nell’opinione pubblica internazionale. In realtà i riflettori su questo conflitto non sono rimasti accesi abbastanza a lungo perché potesse cambiare qualcosa a livello diplomatico e si potesse fare un passo avanti verso una soluzione pacifica del conflitto. Di Sudan abbiamo parlato più volte anche nel podcast Il Mondo.

Un altro conflitto trentennale ha fatto notizia da gennaio a dicembre: quello nell’est della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) tra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo armato M23, sostenuti dal Ruanda. Il 2025 era cominciato con i miliziani che avevano conquistato i capoluoghi di due province congolesi, di fatto strappando una parte del territorio ricco di risorse minerarie al governo di Kinshasa. Dopo di che l’amministrazione Trump si è impegnata per ben due volte a portare i rappresentanti dei due paesi al tavolo dei negoziati, ma i risultati ottenuti non varranno a Trump l’agognato Nobel per la pace: il giorno dopo l’ultima firma, il 4 dicembre, i ribelli hanno ricominciato ad avanzare. Ora si sono di nuovo fermati, ma per quanto?

Intanto altre guerre covano sotto la cenere, e basterebbe poco a farle scoppiare. Gli occhi sono puntati sul Corno d’Africa, dove spaventano le ambizioni dell’Etiopia – che quest’anno ha ufficialmente inaugurato la sua diga della “discordia” – a ottenere uno sbocco al mare. Costi quel che costi.

Mentre in Africa occidentale continuano a consolidarsi i regimi usciti dai colpi di stato degli ultimi anni, altri paesi come la Guinea Bissau e il Benin hanno provato a seguire la stessa strada, con più o meno successo. È stato un anno segnato anche da tante elezioni irregolari (congratulazioni a Paul Biya, che a 92 anni ha ottenuto il suo ottavo mandato settennale), con un bilancio deludente per la democrazia africana. Molti sono rimasti sorpresi anche dalla repressione brutale delle proteste scoppiate in occasione delle elezioni presidenziali in Tanzania, dove per scongiurare una rivolta giovanile – sull’esempio di quelle che avevano già interessato altri paesi dell’Africa e del mondo – la presidente Samia Suluhu Hassan ha usato il pugno di ferro contro i manifestanti.

Questo ci porta a quella che, secondo me, è la notizia dell’anno: l’emergere di una generazione di ventenni (la generazione Z) che protesta contro le condizioni di vita e la mancanza di opportunità nei loro paesi. Dal Kenya, nel 2024, al Madagascar e al Marocco, quest’anno, “le rivolte esprimono la ricomparsa di un soggetto politico globale da tempo rimasto ai margini: la gioventù come coscienza di un sistema mondiale in decadenza”, come ha scritto l’opinionista sudafricano William Shoki.

A questi giovani abbiamo dedicato una copertina di Internazionale con un articolo di Le Monde che raccoglie i ritratti di alcuni leader della gen Z. Forse è questa l’immagine che vorrei collegare al 2025, quella di una nuova generazione che – a quindici anni dalle primavere arabe – sfida presidenti autoritari, sempre più anziani e scollegati dalla realtà, usando tutti gli strumenti a disposizione per far valere il diritto a un futuro migliore.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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