“Mi chiamo Azza Amin Mohammed Salih. Siamo scappati da Al Fashir sabato 25 ottobre alle due di notte. Il viaggio verso Tawila è durato due giorni e mezzo ed è stato pieno di sofferenze. Abbiamo assistito a orrori indescrivibili – arresti, perquisizioni, furti, uccisioni – finché non siamo arrivati a Garni, e da lì a Tawila, dove la gente del posto ci ha accolto con gentilezza. Una delle cose più strazianti del viaggio è stata vedere i cadaveri disseminati lungo la strada, tutte quelle persone uccise sotto i nostri occhi, le munizioni sparse ovunque”.
Continua Azza: “Lungo la strada ci fermavano continuamente, con violenza. Ci hanno rubato tutto quello che avevamo. Uccidevano e picchiavano senza pietà. È stato orribile”.
“Ringraziamo Allah perché ora siamo in un posto sicuro. Vedere che anche altre persone arrivano sane e salve ci scalda il cuore. Molti sono feriti o mutilati, e per chi è rimasto senza una gamba fuggire da Al Fashir è un’impresa inimmaginabile. Molti sono morti, alcuni di fame e sete, altri dissanguati. Per le donne e le ragazze le condizioni sono indicibili, perché le perquisizioni avvengono nei modi più umilianti. Ma comunque rendiamo grazie ad Allah”.
Al Fashir, la capitale storica del Darfur e attuale capoluogo dello stato del Darfur Settentrionale, ha un passato illustre. “La sua posizione fu scelta con cura: un punto sopraelevato, simile a una collina, quindi la città è naturalmente fortificata e sicura. Credo che se il sultano avesse deciso di trincerarsi al suo interno e difenderla come aveva pianificato, avrebbe potuto resistere settimane, se non mesi. Cosa sarebbe potuto succedere dopo, solo Allah, il Conoscitore dell’invisibile, può dirlo”. Così scriveva il _bimbashi _(capitano) Hassan Qindeel, cronista della campagna angloegiziana lanciata nel 1916 contro Al Fashir, dopo che Ali Dinar, il sultano del Darfur, si era schierato con gli imperi centrali nella prima guerra mondiale.
Gli abitanti di Al Fashir sono sempre stati famosi per la loro tempra. Anche oggi, con la loro resistenza e la loro coesione, hanno trasformato un assedio durato diciotto mesi in una dimostrazione di coraggio. In questi mesi le privazioni sono state così grandi che le persone hanno dovuto nutrirsi di mangime per gli animali o cucinare le loro pelli.
Tutti testimoni
Il 26 ottobre 2025 Al Fashir, ultima grande città della regione sotto il controllo dell’esercito sudanese, è caduta nelle mani dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf, che dall’aprile del 2023 si scontrano con le forze armate). Ma le sofferenze non sono finite.
Forse ora il resto del mondo vedrà finalmente il sangue e le lacrime dei suoi abitanti, contro cui i paramilitari commettono atrocità su base etnica. Sono gli stessi carnefici a documentare quei crimini; il loro leader, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, ne ha perfino parlato in un discorso pubblico. Un paradosso che sembra voler dire: l’inferno non è ancora finito.
Nelle settimane prima della caduta, l’assedio delle Rsf – che durava da più di cinquecento giorni – aveva raggiunto il culmine. Domenica 26 ottobre i paramilitari hanno annunciato di aver preso il controllo del quartier generale della sesta divisione di fanteria dell’esercito e poche ore dopo hanno proclamato la conquista dell’intera città.
Il venerdì precedente la sesta divisione aveva respinto il 267° attacco delle Rsf, lanciato su cinque diversi fronti. Era stato “il più feroce dall’inizio dell’assedio”, ha precisato un ufficiale, aggiungendo che tre giorni prima avevano chiesto rinforzi per non doversi ritirare, “ma le forze congiunte hanno respinto la richiesta” (le Forze congiunte di protezione del Darfur sono un’alleanza di ex gruppi ribelli incaricata di proteggere i civili di Al Fashir). “Quel giorno la carenza di soldati era tale che abbiamo dovuto far combattere i feriti ancora in grado di tenere in mano un’arma”.
Secondo diverse fonti sul campo, il comando dell’esercito, le forze congiunte e le autorità statali si sono ritirati improvvisamente la notte tra il 26 e il 27 ottobre. Ma l’hanno fatto in modo così caotico che vari comandanti e funzionari locali sono stati catturati. Successivamente il generale Abdel Fattah al Burhan ha spiegato che le sue truppe si erano ritirate per “risparmiare vite civili”.
Dall’inizio di ottobre i paramilitari lanciavano attacchi con droni carichi di munizioni che sprigionavano odori forti e insoliti. Non è stata rilasciata alcuna dichiarazione ufficiale al proposito, ma i Comitati di resistenza di Al Fashir, un’organizzazione della società civile, hanno registrato casi di disturbi respiratori acuti e nausea, soprattutto tra le donne e i bambini. Così l’11 ottobre i comitati hanno diffuso un appello: “Chi vuole andarsene, lo faccia ora”.
A ogni avanzata delle Rsf i quartieri ancora controllati dall’esercito si riempivano di civili in fuga. Una fonte militare ha raccontato che nelle tre settimane prima della caduta, i soldati consigliavano agli abitanti di lasciare la città, consapevoli del fatto che la situazione umanitaria era ormai insostenibile.
Sempre secondo la stessa fonte, il quartier generale della sesta divisione era già vuoto da più di un anno, così come l’ospedale militare. La divisione è stata sconfitta definitivamente quando i combattenti delle Rsf sono entrati nella base passando lì la notte, insieme ai mercenari colombiani che smantellavano i campi minati intorno alla base. L’area intorno al quartier generale era infatti disseminata di mine sul versante settentrionale e su quello occidentale, ma le Rsf erano riuscite lo stesso a penetrare da ovest.
L’esercito aveva distrutto i sistemi usati dalle Rsf per disturbare le comunicazioni radio e aveva condotto con successo tre lanci aerei di aiuti militari e umanitari all’interno della città, ha dichiarato un’altra fonte militare che non opera ad Al Fashir. Però i paramilitari in seguito hanno ottenuto un sistema elettronico di difesa più aggiornato, di fatto neutralizzando le operazioni con i droni dell’esercito e togliendogli il vantaggio nei cieli.
Secondo il quotidiano statunitense The Wall Street Journal, gli Emirati Arabi Uniti hanno usato la Libia come snodo logistico per rifornire le Rsf. La frequenza dei voli dagli Emirati verso la Libia e la Somalia è aumentata, con i rifornimenti poi trasportati via terra fino al Sudan e di nuovo per via aerea fino alla loro destinazione. Tra le nuove dotazioni arrivate alle Rsf ci sono droni CH-95 di fabbricazione cinese, armi leggere, mitragliatrici, artiglieria e munizioni.
Una fonte delle forze congiunte spiega che una delle principali ragioni della ritirata, a parte l’inasprimento dell’assedio, è stata la caduta del campo per sfollati di Zamzam lo scorso aprile. In quel modo le Rsf sono riuscite a completare l’accerchiamento della città, chiudendo tutte le vie di rifornimento e aggravando la carenza di provviste e munizioni. Sempre secondo la stessa fonte, le Rsf hanno impiegato armi sofisticate, mai usate prima nel corso della guerra, per attaccare le postazioni dell’esercito, ma anche raduni di comuni cittadini ed edifici pubblici. Quindi il fattore decisivo non è stato lo scarso numero di combattenti. E neanche il tracollo della vita quotidiana, con la scarsità di cibo e medicine, la paralisi dei trasporti e la città svuotata della sua energia vitale. Il fattore decisivo, spiega la fonte, è stata la schiacciante superiorità tecnologica delle Rsf.
In un post sui social media pubblicato il giorno dopo la caduta della città, il governatore regionale del Darfur, Minni Minnawi, ha chiesto la protezione dei civili e un’indagine indipendente sui massacri e gli abusi. Nel frattempo le Rsf hanno annunciato “operazioni a tappeto” in tutti i quartieri.
Pochi giorni dopo, in un discorso ufficiale, il generale Hemetti – che guida anche il consiglio presidenziale del Tasis (il governo parallelo proclamato dalle Rsf in Darfur) – ha dichiarato di aver inviato delle commissioni d’inchiesta per “perseguire ogni soldato o ufficiale responsabile di violazioni”, promettendo che i risultati sarebbero stati immediatamente resi pubblici. Hemetti ha anche promesso di togliere le restrizioni agli spostamenti dei civili, anche se sono arrivate notizie di decine di persone scomparse sulle strade in uscita dalla città.
Vie di fuga
Nei giorni precedenti l’assalto finale la fame ad Al Fashir ha raggiunto livelli disperati. La maggior parte delle provviste veniva da ovest, ma le Rsf avevano cominciato a uccidere i contrabbandieri – tredici nell’ultimo incidente noto – e avevano circondato la città con un muro di terra per chiudere tutti gli accessi.
Nell’ultima settimana prima della caduta della città, alcuni quartieri sono diventati così sovraffollati che molte persone in cerca di rifugio dormivano addossate ai muri dei palazzi o sotto gli alberi. Tra la notte del 25 ottobre e la mattina del 26, la città ha subìto bombardamenti di droni senza sosta e attacchi via terra lanciati simultaneamente da cinque fronti.
Dall’inizio di ottobre il numero di abitanti di Al Fashir è drasticamente calato, con 600mila persone che avevano abbandonato le loro case, secondo fonti sul campo. I dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) hanno registrato circa 70.894 sfollati tra il 26 ottobre e il 2 novembre. In base ai rapporti delle Nazioni Unite, queste persone si sono sistemate in diverse località sparse tra Al Fashir e Tawila, circa settanta chilometri a ovest. Gli operatori dell’International rescue committee (Irc) stimano che ad Al Fashir non restino più di 250mila persone. Questo lascia pensare che manchino all’appello decine di migliaia di persone: forse uccise, intrappolate o in situazioni di difficoltà lungo la strada.
Diversi resoconti affermano che le Rsf hanno ucciso sommariamente 460 individui in un unico posto. Filmati verificati provenienti dalla zona ovest di Al Fashir – vicino alla barricata di terra – mostrano corpi disseminati lungo le strade che portano fuori città. Il divario tra il numero di persone che un tempo si trovavano all’interno di Al Fashir e quello di coloro che hanno raggiunto Tawila (la maggioranza degli sfollati) è agghiacciante. L’Ufficio per i diritti umani dell’Onu conferma di aver raccolto “testimonianze raccapriccianti su esecuzioni sommarie, uccisioni di massa, stupri, attacchi a operatori umanitari, saccheggi, sequestri e sfollamenti forzati”.
Parlando con i giornalisti, il portavoce dell’Ufficio dell’alto commissariato dell’Onu per i diritti umani Seif Magango ha dichiarato che, secondo le loro stime, nell’offensiva sono stati uccisi “centinaia di civili e soldati che non erano più in grado di combattere”. I partner umanitari dell’alto commissariato hanno riferito anche che almeno 25 donne hanno subìto stupri di gruppo quando le Rsf hanno fatto irruzione in un rifugio per sfollati vicino all’università.
Nei primi mesi della guerra lo stesso terrore aveva travolto Geneina, il capoluogo dello stato del Darfur Occidentale: lì le Rsf avevano compiuto un massacro tra la popolazione masalit causando più di diecimila morti, una cifra di gran lunga superiore a quella stimata inizialmente.
Senza guardare indietro
Per chi scappava da Al Fashir l’unica strada praticabile era quella verso nordovest, perché quella per Tawila era troppo pericolosa. Chi voleva andarsene quindi ha dovuto allungare il proprio viaggio, passando per località come Garni, Hilla al Sheikh e Kurma.
Subito dopo il 26 ottobre c’è stata “una fuga di massa”, racconta una fonte militare coinvolta nella gestione dell’emergenza umanitaria nei quartieri nord di Al Fashir. “Le persone sono scappate senza fare preparativi o impacchettare provviste, ma solo con la speranza di sopravvivere. Alcuni sono andati a ovest, altri a nord. I secondi hanno continuato verso Hilla al Sheikh, poi Garni e infine Tawila”.
Il varco occidentale, aggiunge la fonte, era una “strada della morte”, un tratto pericoloso per la forte presenza delle Rsf. Lungo il percorso tra Al Fashir e Garni c’erano file di cadaveri a perdita d’occhio. Alcuni corpi non avevano segni di proiettili ma di sete e fatica: quando è stato possibile lasciare la città, molti erano già deboli e sono crollati lungo il tragitto prima di mettersi in salvo. Le vittime sono in maggioranza anziani e bambini.
Inoltre i combattenti delle Rsf schierati alle uscite della città separavano i giovani uomini da donne, bambini e anziani. Il destino di quei ragazzi è “ignoto e straziante”, dichiara la fonte. Alcuni sono stati torturati e giustiziati, altri arrestati, di molti non si sa nulla, soprattutto quelli fuggiti a nord. Diversi testimoni hanno riferito che alcuni giovani uomini, tra cui i volontari delle cucine comunitarie e dei gruppi impegnati nella risposta alle emergenze, oltre a giornalisti e medici, sono stati rinchiusi in centri di detenzione a Garni.
Le esecuzioni di massa sono avvenute non solo lungo le strade ma anche all’interno della città, rivela la stessa fonte. Inoltre alcuni sono stati trattenuti in un’area a nordest di Tawila in attesa che le famiglie paghino i riscatti richiesti dalle Rsf, con somme che variano a seconda della posizione sociale e di presunte connessioni.
In un ambulatorio improvvisato a Tawila un anziano racconta la sua storia. Faceva parte di un gruppo di 38 persone, di cui è l’unico sopravvissuto. “Ci ho messo due giorni per arrivare qui”, dice a bassa voce. “Le Forze di supporto rapido avevano bloccato la strada. Dopo numerose richieste finalmente ci hanno fatto passare. Ma abbiamo fatto appena qualche metro, giusto il tempo di voltare le spalle, e sono cominciati gli spari. Ci siamo messi a correre senza guardarci indietro. Nessuno si è fermato, ma i proiettili sono stati più veloci. Sono caduti tutti”.
Quando gli chiediamo della sua famiglia, l’uomo rimane in silenzio a lungo, prima di sussurrare: “Non so dove siano. Siamo partiti insieme, ma sono arrivato solo io. Ho perso tutti i contatti con loro. Non so se siano vivi… O se sono l’unico sopravvissuto”.
Suleiman (nome di fantasia) è uno degli sfollati arrivati a Tawila da Al Fashir due mesi fa. Sta ancora aspettando di ricongiungersi con lo zio e il figlio, entrambi soldati fuggiti dopo la caduta della città. Spiega che le tre strade principali in uscita da Al Fashir sono piene di pericoli. La peggiore è quella settentrionale, che passa per il campo di Abu Shouk. La seconda strada è diretta a nordovest, verso Hilla al Sheikh. Lì gli abitanti del posto affittano asini a chi continua il viaggio. Alcuni camion delle Rsf trasportano i passeggeri a Kurma, chiedendo dalle 500mila alle 600mila sterline sudanesi (dai 720 agli 860 euro) a persona. Occasionalmente le forze del Movimento di liberazione del Sudan comandate da Abdel Wahid al Nur, una milizia affiliata all’esercito, forniscono altri mezzi per raggiungere Tawila, ma non sono sempre disponibili. Chi non può permettersi un mezzo di trasporto aspetta a Garni per giorni, a volte settimane.
“La maggior parte delle persone prende la strada a ovest per Tawila perché arriva dritta alla meta, ma anche lì molti vengono picchiati. Le donne e le ragazze sono stuprate. Gli ambulatori sono pieni di sopravvissuti che arrivano in condizioni terribili”, spiega Suleiman.
Per una notte tranquilla
Zahra è una sfollata che oggi vive a Tawila: “Siamo andati via da Al Fashir dopo che la vita era diventata impossibile. Non c’era da mangiare né acqua potabile, e i colpi delle armi da fuoco erano sempre più vicini alle case. Ho preso in braccio mio figlio e ho camminato per due giorni senza dormire e senza mangiare a sufficienza. Il tragitto per Kurma è stato spaventoso ed estenuante. Ho perso di vista i miei familiari, non so se sono ancora vivi. A Kurma ci hanno caricato su dei camion che ci hanno portati a Tawila. Là c’era tantissima gente, ma le persone condividevano tutto quello che avevano con sé, una coperta, un po’ di cibo. Mio figlio è malato e ha bisogno di medicine e di un alimento speciale che qui non riusciamo a trovare. Ora l’unica cosa che voglio è che stia al sicuro. E vorrei dormire una notte senza spari o pianti”.
Un attivista sfollato da Al Fashir, che oggi fa il volontario a Tawila, spiega che gli sfollati si fermano all’ingresso principale della città per ricevere una prima assistenza e per riposare. La mattina e la sera arrivano i camion di una milizia affiliata all’esercito per portarli al campo di Dabba al Naira, che è diventato il più grande campo per sfollati di tutto il Darfur. Lui lo descrive come “un posto non sicuro, dove la vita dipende totalmente dalle cucine comunitarie e dalle organizzazioni umanitarie, locali e internazionali”. Nei primi due giorni sono arrivate 4.400 persone.
Najla (nome di fantasia) è una medica volontaria che lavora con una squadra di emergenza a Tawila: “Il nostro piccolo ambulatorio si è trasformato in un pronto soccorso. Ogni giorno curiamo decine di casi, per lo più bambini e donne affetti da grave malnutrizione, disidratazione e traumi. Alcune madri camminano per giorni portando bambini indeboliti dalla sete e dal freddo. Le forniture sanitarie sono quasi inesistenti: non ci sono abbastanza farmaci né flebo, spesso manca la corrente. A volte usiamo le torce dei cellulari per far partorire le donne di notte. La cosa che fa più male è vedere pazienti che avrebbero bisogno di un trasferimento urgente o di un’alimentazione speciale e non poterli aiutare, perché le strade sono chiuse o insicure. Nonostante la stanchezza e il pericolo la nostra squadra continua a lavorare. Non possiamo fermarci: ogni sopravvissuto all’assedio di Al Fashir ci spinge a continuare il nostro lavoro, sperando che le organizzazioni umanitarie si ricordino di noi prima di perdere altre vite”.
La Rete dei medici sudanesi denuncia in un comunicato che quello che è successo ad Al Fashir s’inserisce nella scia di violenze che infuria da un anno e mezzo nel paese: una campagna di bombardamenti, assedio e fame che ha ucciso più di quattordicimila civili prendendo deliberatamente di mira mercati, campi e strutture pubbliche. In soli tre giorni, rivela l’organizzazione, i combattenti delle Rsf hanno ucciso circa 1.500 civili. Secondo Denise Brown, coordinatrice umanitaria dell’Onu in Sudan, per tutta la durata dell’assedio le Rsf hanno ostacolato le forniture di aiuti umanitari.
Nella memoria
Tra il 1916 e il 2025 Al Fashir ha subìto due guerre, entrambe combattute tra forze impari. La prima si concluse con la vittoria dell’impero britannico; la seconda con il crollo della città sotto l’offensiva delle Rsf. In entrambi i casi la popolazione si è trovata intrappolata in una battaglia che non aveva scelto di combattere, pagando con la fame, lo sfollamento e la morte. Nella memoria della città risuona ancora l’eco delle bombe vecchie e nuove, testimonianza di un secolo di resistenza e di abbandono. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati