In questo periodo dell’anno il pensiero va ai viaggi e alle vacanze, e anche sui siti in cui si parla dell’Africa escono articoli dedicati all’esplorazione del continente. Con un tema di sottofondo: la difficoltà per i viaggiatori africani di spostarsi, non solo perché mancano le strade o i voli aerei sono troppo costosi, ma perché i loro passaporti non aprono molte porte e la burocrazia per i visti è tanta e complicata. Un anno fa aveva fatto parlare di sé Pelumi Nubi, una creatrice di contenuti nata a Lagos, in Nigeria, e cresciuta nel Regno Unito, che aveva fatto un viaggio in macchina da Londra a Lagos, percorrendo in totale diecimila chilometri. Un tragitto costellato di ostacoli, lunghe attese e incidenti, ma anche di belle scoperte.

Sul sito Africa is a Country lo scrittore egiziano Mouttasem Albarodi racconta due imprese simili a quella di Nubi, in un certo senso speculari. La prima è quella dell’attivista britannico Keith Boyd, 57 anni, che l’anno scorso ha coperto di corsa la distanza tra Città del Capo, in Sudafrica, e la capitale egiziana Il Cairo. È entrato nel Guinness dei primati perché ci ha messo solo 301 giorni, passando per Sudafrica, Botswana, Zimbabwe, Zambia, Tanzania, Kenya, Etiopia, Sudan ed Egitto. In Etiopia ha subìto un’aggressione e un tentativo di sequestro, incidenti che hanno rallentato di alcune settimane l’arrivo al traguardo. Ha intrapreso il viaggio, ha spiegato, per far conoscere la sua organizzazione benefica Rainbow leaders, che mira a combattere la povertà in Africa incoraggiando le persone a votare.

La seconda impresa, racconta Albarodi, si è svolta quasi in contemporanea a quella di Boyd, ma nell’altra direzione: la creatrice di contenuti Khadija Mansour, 29 anni, è partita dal Cairo in autostop per raggiungere l’estremità sud del continente. Uno dei momenti più importanti del suo viaggio è stato quando ha scalato la vetta del Kilimanjaro, che con i suoi 5.895 metri è la montagna più alta dell’Africa.

Per Boyd, cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, la motivazione a partire è stata la volontà di superare simbolicamente le divisioni – sia materiali, come i confini, sia strutturali, come le disuguaglianze economiche – che continuano ad alimentare le incomprensioni e la discriminazione tra gli africani. Per lui il viaggio era un modo per mettere in evidenza le battaglie comuni e le strette connessioni che legano tutti gli abitanti del continente. Mansour, invece, ha avuto l’idea del viaggio, finanziato con il crowdfunding, dopo aver visitato l’Etiopia nel 2021. Lì Mansour dice di aver imparato di più che in ogni corso di antropologia seguito all’università. Questo l’ha spinta a percorrere una tratta storica come quella che collega il Cairo a Città del Capo.

Mai realizzata

In realtà, un collegamento tra queste due città non c’è mai stato: né i colonialisti britannici né i governi dell’Africa indipendente riuscirono mai a colmare i diecimila chilometri che separano i due estremi del continente. “Per più di 150 anni il progetto ha affascinato imperialisti, esploratori, sostenitori del panafricanismo e sognatori”, scrive Albarodi. “La prima proposta risale al 1874: la fece il giornalista britannico Edwin Arnold, che immaginò un corridoio formato da ferrovie e trasporti fluviali che attraversasse l’Africa da nord a sud. Ma l’idea fece presa soprattutto quando a promuoverla fu l’imperialista per eccellenza, Cecil John Rhodes, per cui linee ferroviarie e telegrafiche avrebbero dovuto dipanarsi per l’interezza del continente”. Come spiegò lo stesso Rhodes, evidenziando la sua logica colonialista, l’interesse principale di quest’opera non era tanto il trasporto delle persone, ma quello delle merci. In ogni caso il progetto non fu mai realizzato e il viaggio dal Capo al Cairo rimase la prerogativa di pochi esploratori bianchi.

“Quando i movimenti indipendentisti travolsero il continente a metà del novecento, i leader africani si trovarono di fronte a una scelta difficile”, ricorda Albarodi. “Decisero, però, di mantenere i confini coloniali per evitare le dispute territoriali e i conflitti che la loro ridefinizione avrebbe potuto provocare. Tuttavia il sogno di una rotta transcontinentale non svanì. Negli anni settanta l’Organizzazione dell’unità africana (oggi Unione africana) e la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite rilanciarono il progetto Città del Capo-Il Cairo, proponendo una nuova autostrada che seguisse il vecchio modello coloniale, con la speranza di unire gli africani, non di dividerli. Ma la tratta resta incompleta. E, per un’amara coincidenza, è ancora più facile da percorrere per un europeo che per molti africani”.

Alcuni, però, come Boyd e Mansour ci stanno provando. Anche a rischio dell’incolumità personale o di essere trattenuti per settimane a un posto di frontiera per la mancanza di un visto. Mentre le organizzazioni continentali promuovono la libertà di spostamento per merci e persone, gli ostacoli sul terreno per chi viaggia sono ancora tanti. L’integrazione e l’eliminazione delle frontiere tra i paesi è ancora molto discontinua e, a seconda delle regioni, ci sono differenze sostanziali: se Boyd è riuscito a correre senza intoppi la prima parte del suo viaggio verso nord, fermandosi a riposare solo all’altezza dello scenografico ponte sulle cascate Vittoria, dall’Etiopia in su le cose non sono andate altrettanto lisce. Lo stesso è successo a Mansour, che ha avuto difficoltà a entrare in Sudan e in Etiopia, e che è poi passata da Gibuti, invece che dal Kenya, perché era più semplice.

Per Boyd, “i confini possono dividere, ma anche unire. Un’Africa senza frontiere è un grande sogno, e servirà impegno per costruirla. Ma se i giovani continueranno a farlo, ci arriveremo”. Un recente sondaggio condotto in trentasei paesi africani, ricorda Albarodi, ha mostrato che la maggior parte delle persone sostiene la libertà di movimento. “E non mancano i progressi: Ruanda, Ghana, Benin, Gambia, Seychelles e Kenya hanno abolito l’obbligo del visto per tutti i titolari di un passaporto africano”.

“Ho incontrato tantissimi viaggiatori africani coraggiosi lungo il cammino”, ha dichiarato a sua volta Mansour. “Per me un’Africa senza confini aprirebbe le porte a più storie, a connessioni più profonde, a infinite strade da percorrere in autostop e a nuove vette da scalare”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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